La destra, i neonazisti, ecc. possono essere antispecisti? I due antispecisti firmatari di questo intervento sostengono di no. E spiegano perché.
Certamente nasce come movimento animalista e tale rimane ma, nello stesso tempo, va oltre gli angusti limiti dell’animalismo classico o della zoofilia, in quanto ritiene che lo sfruttamento degli Animali non sia riconducibile a un atteggiamento dovuto solamente a comportamenti sociali più o meno diffusi, bensì una questione di sistema, cioè di un’organizzazione strutturata che genera ed è a sua volta sostenuta dall’ideologia del dominio.
Questa mancanza di una precisa identità sfocia inevitabilmente in una serie di problematiche identitarie, tanto “interne” (vi è una certa confusione tra coloro che – almeno a parole – si professano antispecisti) che “esterne” (ossia di come il movimento viene percepito dalla società).
Alla mancanza di unità nelle iniziative concrete (quindi di natura strategica e tattica), viene così ad affiancarsi anche un isolamento culturale, sociale e politico dovuto anche alla difficoltà di dialogare proficuamente persino con altri soggetti potenzialmente portatori di rivendicazioni in parte sovrapponibili.
Come se ciò non fosse già fonte di sufficienti preoccupazioni, in questo periodo si deve aggiungere un crescente interesse nei confronti della questione animale proveniente da alcuni ambienti della destra (più o meno estrema) che comporta il rischio di un’ulteriore frattura con gli altri movimenti antisistemici.
Il silenzio della sinistra Mentre ci si sta abituando all’assordante silenzio che proviene dal centro-sinistra, cui si accompagna il superficiale disinteresse di troppi gruppi anarchici, della sinistra extraparlamentare o, più in generale, antisistemici, ci si deve oggi anche confrontare, da un lato, con un certo attivismo a favore degli Animali da parte di alcuni membri del governo, dall’altro con la nascita di gruppi neofascisti che abbinano al tradizionale messaggio ambientalista (derivante dal classico concetto di “sangue e suolo”) delle istanze più prettamente animaliste.
Il gruppo parlamentare di Futuro e Libertà, per esempio, ha dedicato l’intero numero 4 della sua rivista bimestrale “Charta Minuta” alla questione animale. Il leit motiv della trasversalità della battaglia animalista appare evidente fin dalle prime pagine: nel suo editoriale di introduzione alla suddetta monografia intitolata “Dalla parte degli animali”, Adolfo Urso infatti scrive che è necessario sfatare il «luogo comune secondo il quale la protezione e la tutela degli animali siano appannaggio della sinistra … Non esistono temi di destra o di sinistra ma soluzioni e proposte che si adeguano nello spazio e nel tempo e che danno risposte alle esigenze che maturano» (1).
Lo scopo? Quello di indurre gli ingenui lettori a considerare la questione animale come un problema apolitico, salvo poi sottolineare la grande attenzione che la destra dimostra al riguardo al fine di attirarne le simpatie (e quindi i consensi ed infine i voti).
Ancora più a destra di Futuro e Libertà si sono formati gruppi neofascisti che abbinano a un messaggio anticapitalista rivendicazioni contro lo sfruttamento animale e di propaganda del veganismo, spingendosi sino a definirsi antispecisti , o come dicono loro “antispe”.
Una lettura superficiale di questo fenomeno da parte di alcune realtà del movimento animalista potrebbe portare alla conclusione che in ciò non solo non vi sia nulla di male, ma che tanto maggiore sarà la trasversalità della causa animalista, tanto maggiore sarà la forza che il movimento riuscirà a esprimere a favore degli Animali.
In realtà, il discorso è più complicato e coinvolge anche il movimento antispecista che deve interrogarsi su come è possibile che gruppi ideologicamente legati a idee conservatrici, o addirittura fasciste o neonaziste possano dichiararsi antispecisti. O meglio: questo loro definirsi antispecisti è concettualmente possibile oppure no?
Articolare una risposta a tali interrogativi risulta complesso, non tanto per la risposta in sé che è senza alcuna ombra di dubbio “no, non può esistere un antispecismo di destra”, ma perché per giungere a tale conclusione si deve andare oltre la superficiale interpretazione che spesso si dà al concetto di antispecismo che porta a far sì che le giustificazioni spesso addotte siano perlomeno discutibili.
Per Singer infatti «Lo specismo … è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie» (2). Singer dimostra come ogni argomento morale (la razionalità, il linguaggio, l’essere agenti morali, l’autocoscienza, l’anima ecc.) introdotto per giustificare il diverso trattamento che riserviamo agli Animali può, alla fine, essere ricondotto alla mera appartenenza alla specie umana; il ricorso al caso degli esseri umani marginali e la denuncia di un doppio standard morale (uno valido per gli Umani e uno per gli Animali) lancia una vera sfida al pensiero filosofico classico.
Tale provocazione è stata accettata da alcuni i quali hanno risposto che agli esseri umani marginali è dovuto pieno rispetto morale perché essi sono Umani, membri cioè della nostra specie. Incalzati sul perché l’appartenenza di specie sia un fatto moralmente rilevante, l’incapacità di fornire una risposta costituisce per loro alcuna preoccupazione. È questo lo specismo come lo abbiamo appreso da Singer. È senza dubbio da tale riflessione che si è incominciato a parlare di specismo. Partendo da tale prospettiva, il lavoro di Singer si limita a (ri)elaborare una teoria etica che arriva a includere alcuni degli animali non umani nella cerchia dei soggetti ai quali è dovuta considerazione morale; egli non elabora alcun nuovo “valore” ma denuncia la contraddizione che caratterizza la nostra società quando si rifiuta di estendere i suoi valori agli animali non umani.
Antispecismo razzismo, sessismo Simili sono le conseguenze a cui giunge anche il filosofo americano Tom Regan; pur criticando le tesi di Singer, egli formula una teoria dei diritti morali che postula un semplice allargamento, nel suo caso, dei soggetti di diritto. Nessuno dei due mette in discussione la struttura della società occidentale attuale; è questo il vero limite principale del loro lavoro. Le loro riflessioni sono limitate nel tempo e nello spazio in quanto, oltre ad accettare le premesse della metafisica occidentale, non mettono mai in discussione la struttura sociale, economica e politica attuale. La proposta avanzata, sia dal punto di vista teorico che pratico, non rappresenta una seria critica alla società umana moderna.
Del rapporto valori/società, rapporto necessariamente biunivoco, essi considerano solo un aspetto come se la società umana non fosse altro che il prodotto dei valori che rappresenta (3). Ed è sempre all’interno di questo orizzonte che Singer, dopo aver definito lo specismo, ne afferma l’analogia (4) con altre forme di discriminazione interspecifiche quali il razzismo e il sessismo. Singer non spiega quale tipo di rapporto intercorra tra specismo, razzismo e sessismo; l’unica affinità riscontrabile è che sia per il per il razzismo e per il sessismo, come per lo specismo, due individui che altrimenti non differiscono per aspetti moralmente rilevanti possono essere trattati in modo differenziato a causa della loro razza, del loro sesso o della loro specie. È da questo punto di vista che le prospettive sono analoghe.
Qui si ferma l’analisi di Singer (5) e qui, purtroppo, si è fermata anche la riflessione di molti attivisti animalisti.
In realtà se l’antispecismo si limitasse a denunciare la discriminazione arbitraria che subiscono gli Animali a causa della loro appartenenza a una specie diversa da quella umana, ossia una discriminazione basata unicamente su motivi biologici, ciò non basterebbe, ad esempio, a escludere la possibilità di un antispecismo di destra. Si potrebbe essere antispecisti di destra (ossia razzisti e sessisti) senza cadere in contraddizione con la definizione sopra riportata.
Ciò che manca, infatti, è ancora un passaggio costituito dall’analisi della seconda parte della corrispondenza biunivoca sopra citata tra valori e società. In altre parole: lo specismo non è solo un’idea, qualcosa di teorico, ma è anche una prassi. Per comprendere come questa prassi sia nata e si sia evoluta è pertanto necessario compiere una ricerca storica al fine di capire quali sono le reali condizioni in cui questa discriminazione si è sviluppata, ossia come realmente la forma assunta dalla nostra struttura sociale ha influenzato il pensiero specista.
Le intuizioni di Singer e Regan necessitano quindi di dover passare dal mondo delle idee a quello reale e fare questo ci consente di capire quali sono tutte quelle barriere il cui abbattimento costituisce la conditio sine qua non affinché tale trasposizione possa avvenire.
Alcuni ritengono che tale passaggio sia qualcosa di indebito, di strumentale; l’accusa mossa è quella di utilizzare la lotta antispecista per “fini politici” finendo così per mettere in secondo piano l’importanza della questione animale.
Differenze fittizie e irrilevanti È doveroso ammettere, in effetti, che questo pericolo esiste, ma non per questo tale analisi deve essere elusa, pena l’incapacità di comprendere appieno il fenomeno di cui stiamo parlando: non è pertanto qualcosa di indebito, bensì di necessario. E che non sia una forzatura lo si può vedere, ad esempio, facendo un confronto con il razzismo.
Il razzismo altro non è che «la convinzione preconcetta che la specie umana sia suddivisa in razze biologicamente distinte e caratterizzate da diversi tratti somatici e diverse capacità intellettive, e la conseguente idea che sia possibile determinare una gerarchia di valore secondo cui una particolare razza possa essere definita “superiore” o “inferiore” a un’altra» (6).
Questa breve descrizione ci dimostra quanto siano impressionanti le analogie (storico-culturali) tra razzismo e specismo: entrambi sono forme discriminatorie basate su differenze fittizie e irrilevanti (prima biologiche, poi via via declinate in modo più raffinato) volte a preservare determinati vantaggi da parte di chi li professa che hanno una matrice culturale giustificazionista di una prassi di sistematico sfruttamento di chi viene considerato gerarchicamente “inferiore”.
Risulta chiaro che è unicamente dallo studio della storia che si può apprendere come quelle analogie teorizzate da Singer solo a livello culturale si sono manifestate nella realtà, diventando cioè prassi funzionale al funzionamento della società.
Ma l’antispecismo va oltre l’antirazzismo. Va oltre non tanto perché rappresenta un concetto più generale, o perché per la prima volta il soggetto che libera non coincide con il soggetto liberato (7), ma perché ci “costringe” a interrogarci sull’origine di ogni forma di discriminazione, analisi che riguarda sia l’aspetto culturale che quello storico, di prassi, ossia di come effettivamente si sono sviluppate le prime società organizzate in senso gerarchico. Infine, va oltre perché introduce l’Animale nella nostra riflessione. E questo è fondamentale almeno per due ordini di motivi.
Innanzitutto perché i concetti di Umano e Animale sono indissociabili in quanto si circoscrivono e si definiscono reciprocamente, perché nonostante gli immani sforzi fatti dalla nostra specie per affrancarsi dalle proprie origini, siamo e rimaniamo Animali.
In secondo luogo perché studiando come sia avvenuta storicamente la scissione ontologica Umano-Animale, si scopre come essa sia il risultato di un processo che è durato millenni; l’Uomo, infatti, non si è percepito da sempre come superiore agli altri Animali (o, per lo meno, non più di quanto non lo si sentisse nei confronti degli altri esseri umani non appartenenti alla propria tribù). È solo con il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, unitamente ad altri aspetti di carattere spirituale-religioso, che si sono formate le prime società organizzate. È per esercitare il proprio dominio sulla terra che alcuni uomini hanno iniziato a schiavizzare altri Umani e alcuni Animali.
Lo sfruttamento della natura, degli Animali e di alcuni Umani è un qualcosa che non può essere né separato né suddiviso in ordine temporale, intrecciandosi invece in una sorta di circolo vizioso.
Schiavismo, sfruttamento dei popoli e delle specie, genocidi, denigrazione delle donne, si reggono tutti sulla stessa idea folle di dominio. Un desiderio di dominio che viene però, di epoca in epoca, mascherato e giustificato sul piano morale e culturale attraverso l’elaborazione di un’ideologia che varia a seconda dei bisogni e delle inquietudini delle masse del momento.
Ciò ci può spingere a considerare che il cammino dell’Uomo sia costellato di episodi che lo hanno portato a divenire il tiranno che tutti conosciamo e che il rapporto di forza tra la nostra specie e le altre è variato nel tempo a tutto vantaggio della prima anche e soprattutto grazie alle scoperte tecnologiche e scientifiche che hanno – unitamente alla religione – contribuito all’elevazione dell’Umano oltre la soglia della naturalità.
È onesto ammettere che ciò che siamo deriva da una parte di noi, del nostro complesso essere, e che scienza, tecnologia e religione hanno funzionato da amplificatore causando l’immensa espansione del nostro ego che tutto ha sovrastato. Per contro è del tutto evidente che non siamo “solo” questo, ma molto altro e, conseguentemente, possiamo realmente ripensarci e reinventarci, ripensando e reinventando anche la nostra società.
L’antispecismo non è solo una rivendicazione di estensione della considerazione morale o dei diritti a un numero maggiore di soggetti quanto una forma reale di liberazione da ogni tipo di dominio. Senza rivedere le basi stessi del nostro vivere in comune, della nostra organizzazione sociale ed economica, questo non potrà mai accadere. È la struttura stessa della società basata sulla discriminazione, sullo sfruttamento economico, sul ruolo repressivo e di controllo dello stato che deve essere messa in discussione.
L’antispecismo nasce come un movimento cui fine è la liberazione animale. Affinché tale obiettivo possa essere raggiunto è necessario abbattere quelle barriere culturali e materiali che impediscono ai principi di eguaglianza, equità e rispetto, di cui è portatore, di potersi liberamente diffondere. Ma poiché queste barriere sono le stesse che consentono a tutt’oggi il perpetuarsi dello sfruttamento dell’Umano sull’Umano, ecco che la loro distruzione consentirà, assieme alla liberazione degli Animali, anche quella reale degli Umani.
Tentativi di sdoganamento È per questo che liberazione animale e liberazione umana coincidono, è per questo che lo slogan più citato dagli antispecisti è “Animal liberation, Human liberation”.
A chi gli chiedeva quali potevano essere oggi le differenze tra destra e sinistra, Marcello Veneziani rispose: «Diciamo subito che in effetti si sono confuse destra e sinistra, negli ultimi tempi. Però, a voler essere più precisi, quello che distingue oggi la destra dalla sinistra è che la destra crede molto alle radici, ai valori di un radicamento, mentre la sinistra crede molto ai valori di liberazione, di emancipazione. Credo che questo sia lo spartiacque» (8).
Non possiamo che concordare proprio per il semplice fatto che l’antispecismo è portatore di istanze di liberazione ed emancipazione dalla società del dominio (su Umani ed Animali) in cui viviamo e come tale rappresenta certamente una volontà di discontinuità con il passato e con lo status quo. Per contro, la destra e il fascismo sono chiaramente espressione di tutela della continuità e della tradizione, tutela quale risultato da perseguire soprattutto attraverso l’opposizione alle libertà individuali e collettive. È anche per questo che non può esistere in alcun modo un antispecismo di destra: si tratterebbe di un ossimoro.
Eppure i tentativi di sdoganamento di una destra animalista e persino antispecista ci sono e sono sempre più numerosi. Tutto avviene subdolamente e mediante una cortina fumogena che avvolge e confonde le idee, una sorta di foschia che appiattisce e livella non permettendo più chiare identificazioni, ma causando un’incredibile e assurda commistione di idee, principi e intenti. In un’epoca in cui la destra onora figure come quella di Che Guevara, le sue frange “animaliste” dedicano fotografie e spazi in memoria di Barry Horne (9) spingendosi ad adottare, a volte, anche la stessa simbologia: le due bandiere sovrapposte, una verde e l’altra nera che, seppur con alcune modifiche, ricalcano i simboli dell’azione antispecista di matrice anarchica.
Se a tutto questo si aggiunge poi anche l’altro punto di contatto costituito dall’azione anticapitalista che pare essere speculare e sicuramente condivisa sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra, risulta inevitabilmente facile confondere i messaggi ricorrendo al consueto gioco dell’apoliticità che sempre più si è consolidato sin dalla caduta delle contrapposizioni ideologiche del Novecento. Dietro a tale presunta apoliticità si cela, in realtà, la subdola volontà di non enunciare principi chiarificatori utili a permettere di distinguere e di individuare tendenze autoritarie, xenofobe, razziste e fasciste.
L’apoliticità e la trasversalità usata come sinonimo di universalità del messaggio animalista vengono sfruttate quindi per rimuovere ogni critica e ogni opposizione nei confronti di gruppi o fazioni di matrice autoritaria. È indubbio che in ambito animalista vi sia una certa ignoranza che, mista a disinformazione e disillusione, impedisce una corretta valutazione delle diverse realtà animaliste presenti sul territorio.
Il concetto che qualsiasi cosa è utile per salvare gli Animali ha causato più danni che altro: in nome dell’azione subito e ora, priva di una necessaria elaborazione teorica, senza una strategia e soprattutto senza una chiara finalità condivisa, tale concetto ha causato la formazione una generazione di attivisti del tutto sprovvisti di strumenti analitici e di conoscenze critiche, tanto che al giorno d’oggi dichiararsi apolitici pare essere un titolo di merito, una dichiarazione di estraneità nei confronti di tutto ciò che è marcio e corrotto, una sorta di nuova verginità. La realtà è ben più amara, perché quasi sempre si confonde politica con partitismo mentre si dimentica – o addirittura si ignora – che l’attività politica è il fondamento di ogni attivista che intenda davvero influenzare la società per innescarne il cambiamento. Cos’è possibile fare per scongiurare questa devianza?
Urge chiaramente la diffusione di una nuova consapevolezza, della definizione di principi e di modelli che possano aiutare attivisti, gruppi e associazioni a intraprendere un cammino comune – pur con distinguo e differenze – realmente rivoluzionario. La colpevole mancanza di elaborazione teorica e l’adozione acritica e inconsapevole della sola prassi vegana, ha creato la situazione che stiamo vivendo. Ciò che non possiamo permettere è che il messaggio libertario e radicale dell’antispecismo possa essere annichilito e assorbito da rinate forze autoritarie, evitando nel contempo di svendere l’autonomia antispecista così faticosamente guadagnata
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