lunedì 30 maggio 2011

ANARCHIA malatesta (parte 3)

Abbiamo detto che l'anarchia è la società senza governo.
Ma è possibile, è desiderabile, è prevedibile la soppressione dei governi? Vediamo. Che cosa è il governo? La tendenza metafisica (che è una malattia della mente, per la quale l'uomo, dopo di avere per processo logico astratto da un essere le sue qualità, subisce una specie di allucinazione che gli fa prendere l'astrazione per un essere reale), la tendenza metafisica, diciamo, che malgrado i colpi della scienza positiva, ha ancora salde radici nella mente della più parte degli uomini contemporanei, fa sì che molti concepiscono il governo come un ente morale, con certi dati attributi di ragione, di giustizia, di equità, che sono indipendenti dalle persone che stanno al governo. Per essi il governo, e più astrattamente ancora lo Stato, è il potere sociale astratto; è il rappresentante, astratto sempre, degl'interessi generali; è l'espressione del diritto di tutti, considerato come limite dei diritti di ciascuno. E questo modo di concepire il governo è appoggiato dagli interessati, cui preme che sia salvo il principio di autorità, e sopravviva sempre alle colpe ed agli errori di coloro che si succedono nell'esercizio del potere.
Per noi, il governo è la collettività dei governanti; ed i governanti - re, presidenti, ministri, deputati, ecc. - sono coloro che hanno la facoltà di fare delle leggi per regolare i rapporti degli uomini tra di loro, e farle eseguire; di decretare e riscuotere l'imposta; di costringere al servizio militare; di giudicare e punire i contravventori alle leggi; di sottoporre a regole, sorvegliare e sanzionare i contratti privati; di monopolizzare certi rami della produzione e certi servizi pubblici, o, se vogliono, tutta la produzione e tutti i servizi pubblici; di promuovere o ostacolare lo scambio dei prodotti; di far la guerra o la pace con governanti di altri paesi, di concedere o ritirare franchigie, ecc., ecc. I governanti in breve, sono coloro che hanno la facoltà, in grado più o meno elevato, di servirsi della forza sociale, cioè della forza fisica, intellettuale ed economica di tutti, per obbligare tutti a fare quello che vogliono essi. E questa facoltà costituisce, a parer nostro, il principio governativo, il principio di autorità.
Ma quale è la ragion d'essere del governo?
Perché abdicare nelle mani di alcuni individui la propria libertà, la propria iniziativa? Perché dar loro questa facoltà di impadronirsi, con o contro la volontà di ciascuno, della forza di tutti e disporne a loro modo? Sono essi tanto eccezionalmente dotati da potersi, con qualche apparenza di ragione, sostituire alla massa e fare gli interessi, tutti gli interessi degli uomini meglio di quello che saprebbero farlo gli interessati? Sono essi infallibili ed incorruttibili al punto da potere affidare, con un sembiante di prudenza, la sorte di ciascuno e di tutti alla loro scienza e alla loro bontà?
E quand'anche esistessero degli uomini di una bontà e di un sapere infiniti, quand'anche, per un'ipotesi che non si è mai verificata nella storia e che noi crediamo impossibile a verificarsi, il potere governativo fosse devoluto ai più capaci ed ai più buoni, aggiungerebbe il possesso del governo qualche cosa alla loro potenza benefica, o piuttosto la paralizzerebbe e la distruggerebbe per la necessità, in cui si trovano gli uomini che sono al governo, di occuparsi di tante cose che non intendono, e sopra tutto di sciupare il meglio della loro energia per mantenersi al potere, per contentare gli amici, per tenere a freno i malcontenti e per domare i ribelli?
E ancora, buoni o cattivi, sapienti o ignari che siano i governanti, chi è che li designa all'alta funzione? Si impongono da loro stessi per diritto di guerra, di conquista, o di rivoluzione? Ma allora che garanzia ha il pubblico che essi s'ispireranno all'utilità generale? Allora è pura questione di usurpazione, ed ai sottoposti, se malcontenti, non resta che l'appello alla forza per scuotere il giogo. Sono scelti da una data classe, o da un partito? E allora certamente trionferanno gl'interessi e le idee di quella classe o di quel partito, e la volontà e gl'interessi degli altri saranno sacrificati. Sono eletti a suffragio universale? Ma allora il solo criterio è il numero, che certo non è prova né di ragione, né di giustizia, né di capacità. Gli eletti sarebbero coloro che meglio sanno ingarbugliare la massa; e la minoranza, che può anche essere la metà meno uno, resterebbe sacrificata. E ciò senza contare che l'esperienza ha dimostrato l'impossibilità di trovare un meccanismo elettorale, pel quale gli eletti siano almeno i rappresentanti reali della maggioranza.
Molte e varie sono le teorie, con cui si è tentato spiegare e giustificare l'esistenza del governo. Però tutte sono fondate sul preconcetto, confessato o no, che gli uomini abbiano interessi contrari, e che vi sia bisogno di una forza esterna, superiore, per obbligare gli unì a rispettare gl'interessi degli altri, prescrivendo ed imponendo quella regola di condotta, con cui gli interessi in lotta siano il meglio possibile armonizzati, ed in cui ciascuno trovi il massimo di soddisfazione col minimo di sacrifici possibili.
Se, dicono i teorici dell'autoritarismo, gli interessi, le tendenze, i desiderii di un individuo sono in opposizione con quelli di un altro individuo o magari di tutta quanta la società, chi avrà il diritto e la forza di obbligare l'uno a rispettare gli interessi dell'altro? Chi potrà impedire al singolo cittadino di violare la volontà generale? La libertà di ciascuno, essi dicono, ha per limite la libertà degli altri; ma chi stabilirà questi limiti e chi li farà rispettare? Gli antagonisti naturali degli interessi e delle passioni creano la necessità del governo, e giustificano l'autorità, che interviene moderatrice nella lotta sociale, e segna i limiti dei diritti e dei doveri di ciascuno.
Questa è la teoria; ma le teorie per essere giuste debbono esser basate sui fatti e spiegarli e si sa bene come in economia sociale troppo spesso le teorie s'inventano per giustificare i fatti, cioè per difendere il privilegio e farlo accettare tranquillamente da coloro che ne sono le vittime.
Guardiamo piuttosto ai fatti.
In tutto il corso della storia, così come nell'epoca attuale, il governo, o è la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato ad assicurare il dominio ed il privilegio a coloro che, per forza, o per astuzia, o per eredità, hanno accaparrato tutti i mezzi di vita, primo tra essi il suolo, e se ne servono per tenere il popolo in servitù e farlo lavorare per loro conto.
In due modi si opprimono gli uomini: o direttamente colla forza bruta, colla violenza fisica; o indirettamente sottraendo loro i mezzi di sussistenza e riducendoli così a discrezione. Il primo modo è l'origine del potere, cioè del privilegio politico; il secondo è l'origine della proprietà, cioè del privilegio economico. Si può anche sopprimere gli uomini agendo sulla loro intelligenza e sui loro sentimenti, il che costituisce il potere religioso, o universitario; ma come lo spirito non esiste se non in quanto risultante delle forze materiali, così la menzogna ed i corpi costituiti per propagarla non hanno ragion d'essere se non in quanto sono la conseguenza dei privilegi politici ed economici, ed un mezzo per difenderli e consolidarli.
Nelle società primitive, poco numerose e dai rapporti sociali poco complicati, quando una circostanza qualsiasi ha impedito che si stabilissero delle abitudini, dei costumi di solidarietà, o ha distrutti quelli che esistevano e stabilito la dominazione dell'uomo sull'uomo, i due poteri politico ed economico si trovano raccolti nelle stesse mani, che possono anche essere quelle di un uomo solo. Coloro che colla forza han vinti ed impauriti gli altri, dispongono delle persone e delle cose dei vinti, e li costringono a servirli, a lavorare per loro ed a fare in tutto la loro volontà.
Essi sono nello stesso tempo proprietari, legislatori, re, giudici e carnefici.
Ma coll'ingrandirsi delle società, col crescere dei bisogni, col complicarsi dei rapporti sociali, diventa impossibile l'esistenza prolungata di un tale dispotismo. I dominatori, e per sicurezza e per comodità e per l'impossibilità di fare altrimenti, si trovano nella necessità da una parte di appoggiarsi sopra una classe privilegiata, cioè sopra un certo numero d'individui cointeressati nel loro dominio, e dall'altra di lasciare che ciascuno provveda come può alla propria esistenza, riservandosi per loro il dominio supremo, che è il diritto di sfruttare tutti il più possibile, ed è il modo di soddisfare la vanità di comando. Così all'ombra del potere, per la sua protezione e complicità, e spesso a sua insaputa e per cause che sfuggono al suo controllo, si sviluppa la ricchezza privata, cioè la classe dei proprietari. E questi, concentrando a poco a poco nelle loro mani i mezzi di produzione, le fonti vere della vita, agricoltura, industria, scambi, ecc. finiscono col costituire un potere a sé, il quale, per la superiorità dei suoi mezzi, e la grande massa d'interessi che abbraccia, finisce sempre col sottomettere più o meno apertamente il potere politico, cioè il governo, e farne il proprio gendarme.
Questo fenomeno si è riprodotto più volte nella storia. Ogni volta che, con l'invasione o con qualsiasi impresa militare, la violenza fisica, brutale ha preso il disopra di una società, i vincitori hanno mostrato tendenza a concentrare nelle proprie mani governo e proprietà. Però sempre, la necessità per il governo di conciliarsi la complicità di una classe potente, le esigenze della produzione, l'impossibilità di tutto sorvegliare e tutto dirigere, ristabilirono la proprietà privata, la divisione dei due poteri, e con essa la dipendenza effettiva di chi ha in mano la forza, i governi, da chi ha in mano le sorgenti stesse della forza, i proprietari. Il governante finisce sempre, fatalmente, coll'essere il gendarme del proprietario.
Ma mai questo fenomeno si era tanto accentuato quanto nei tempi moderni. Lo sviluppo della produzione, l'estendersi immenso dei commerci, la potenza smisurata che ha acquistato il denaro, e tutti i fatti economici provocati dalla scoperta dell'America, dall'invenzione delle macchine, ecc. hanno assicurato tale supremazia alla classe capitalistica, che essa, non contenta più di disporre dell'appoggio del governo, ha voluto che il governo uscisse dal proprio seno. Un governo che traeva la sua origine dal diritto di conquista (diritto divino, dicevano i re ed i loro preti) per quanto sottoposto dalle circostanze alla classe capitalistica, conservava sempre un contegno altero e disprezzante verso i suoi antichi schiavi ora arricchiti, e aveva delle velleità d'indipendenza e di dominazione. Quel governo era bensì il difensore, il gendarme dei proprietari, ma era di quei gendarmi che si credono qualche cosa, e fanno gli arroganti colle persone che debbono scortare e difendere, quando non le svaligiano ed ammazzano alla prima svolta di strada; e la classe capitalista se ne è sbarazzata o se ne va sbarazzando, con mezzi più o meno violenti, per sostituirlo con un governo scelto da essa stessa, composto di membri della sua classe, continuamente sotto il suo controllo, e specialmente organizzato per difendere la classe contro le possibili rivendicazioni dei diseredati.
Di qui l'origine del sistema parlamentare moderno.
Oggi il governo, composto di proprietarie e di gente a loro ligia, è tutto a disposizione dei proprietarii, e lo è tanto che i più ricchi spesso disdegnano di farne parte. Rotschild non ha bisogno di essere né deputato, né ministro; gli basta tenere alla sua dipendenza deputati e ministri.
In molti paesi il proletariato ha nominalmente una partecipazione più o meno larga all'elezione del governo. È una concessione che la borghesia ha fatto, sia per avvalersi del concorso popolare nella lotta contro il potere reale e l'aristocrazia, sia per distogliere il popolo dal pensare ed emanciparsi col dargli un'apparenza di sovranità.
Però, che la borghesia lo prevedesse o no quando per la prima volta concedeva al popolo il diritto al voto, il certo è che quel diritto si è mostrato affatto irrisorio, e buono solo a consolidare il potere della borghesia col dare alla parte più energica del proletariato la speranza illusoria di arrivare al potere.
Anche col suffragio universale, e, potremmo dire, specialmente col suffragio universale, il governo è restato il servo e il gendarme della borghesia. Che se fosse altrimenti, se il governo accennasse a divenire ostile se la democrazia potesse mai essere altro che una lustra per ingannare il popolo, la borghesia minacciata nei suoi interessi s'affretterebbe a ribellarsi, ed adopererebbe tutta la forza e tutta l'influenza che le viene dal possesso della ricchezza, per richiamare il governo alla funzione di semplice suo gendarme.
In tutti i tempi e in tutti i luoghi qualunque sia il nome che piglia il governo, qualunque sia la sua origine e la sua organizzazione, la sua funzione essenziale è sempre quella di opprimere e sfruttare le masse, di difendere gli oppressori e gli sfruttatori; ed i suoi organi principali, caratteristici, indispensabili sono il birro e l'esattore, il soldato ed il carceriere, ai quali si aggiunge immancabilmente il mercante di menzogne, prete o professore che sia, stipendiato o protetto dal governo per asservire gli spiriti e farli docili al giogo.
Certamente a queste funzioni primarie, a questi organi essenziali del governo altre funzioni ed altri organi si sono aggiunti lungo il corso della storia. Ammettiamo puranco che mai o quasi ha potuto esistere, in un paese alquanto civilizzato, un governo che oltre le funzioni oppressive e spogliatrici, non se ne attribuisse altre utili o indispensabili alla vita sociale. Ma ciò non infirma il fatto che il governo è di sua natura oppressivo e spogliatore, e che è, per l'origine e la posizione sua, fatalmente portato a difendere e rinforzare la classe dominante; anzi lo conferma ed aggrava.
Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizii pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezioni delle foreste, ecc., apre orfanotrofi ed ospedali, e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s'intende, a protettore e benefattore dei poveri e dei deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato dallo spirito di dominazione, ed ordinato a difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri, e quelli della classe di cui egli è il rappresentante ed il difensore.
Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale; esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l'aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti.
"La legge" dice Kropotkin, e s'intende coloro che han fatta la legge, cioè il governo, "ha utilizzato i sentimenti sociali dell'uomo per far passare insieme ai precetti di morale che l'uomo accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro di cui egli si sarebbe ribellato".
Un governo non può volere che la società si disfaccia, poiché allora verrebbe meno a sé ed alla classe dominante il materiale da sfruttare; né può lasciare ch'essa si regga da sé senza intromissioni ufficiali, poiché allora il popolo si accorgerebbe ben presto che il governo non serve se non a difendere i proprietarii che l'affamano, e si affretterebbe a sbarazzarsi del governo e dei proprietarii.
Oggi di fronte ai reclami insistenti e minacciosi del proletariato, i governi mostrano la tendenza ad intromettersi nelle relazioni tra padroni ed operai; con ciò tentano di deviare il movimento operaio, e di impedire, con qualche ingannevole riforma, che i poveri prendano da loro stessi tutto quello che spetta loro, cioè una parte di benessere eguale a quella di cui godono gli altri.
Bisogna inoltre tenere in conto, da una parte che i borghesi, cioè i proprietarii, stanno essi stessi continuamente a farsi la guerra ed a mangiarsi tra loro; e dall'altra parte che il governo, per quanto uscito dalla borghesia e servo e protettore di essa, tende, come ogni servo ed ogni protettore, ad emanciparsi ed a dominare il protetto. Quindi quel giuoco d'altalena, quel barcamenarsi, quel concedere e ritirare, quel cercare alleati tra il popolo, contro i conservatori, e tra i conservatori contro il popolo, che è la scienza dei governanti, e che fa illusione agli ingenui ed ai neghittosi, i quali stanno sempre ad aspettare che la salvezza venga loro dall'alto.
Con tutto questo il governo non cambia natura. Se si fa regolatore e garante dei diritti e dei doveri di ciascuno, esso perverte il sentimento di giustizia: qualifica reato e punisce ogni atto che offende o minaccia i privilegi dei governanti e dei proprietari, e dichiara giusto, legale, il più atroce sfruttamento dei miserabili, il lento e continuo assassinio morale e materiale, perpetrato da chi possiede a danno di chi non possiede. Se si fa amministratore dei servizi pubblici, esso mira ancora e sempre agli interessi dei governanti e dei proprietarii, e non si occupa degli interessi della massa lavoratrice se non in quanto è necessario perché la massa consenta a pagare. Se si fa istitutore, esso inceppa la propagazione del vero, e tende a preparare la mente ed il cuore dei giovani, perché diventino o tiranni implacabili, o docili schiavi, secondo la classe a cui appartengono. Tutto nelle mani del governo diventa mezzo per sfruttare, tutto diventa istituzione di polizia, utile per tenere il popolo a freno.
E doveva esser così. Se la vita degli uomini è lotta tra uomini vi sono naturalmente vincitori e perdenti, ed il governo che è il premio della lotta, ed un mezzo per assicurare ai vincitori i risultati della vittoria e perpetuarli, non andrà certo mai in mano a coloro che avranno perduto, sia che la lotta avvenga sul terreno della forza fisica o intellettuale, sia che avvenga sul terreno economico. E coloro i quali hanno lottato per vincere, cioè per assicurarsi condizioni migliori degli altri, per conquistare privilegi e dominio, non se ne serviranno certo per difendere i diritti dei vinti, ed imporre dei limiti all'arbitrio proprio ed a quello dei loro amici e partigiani.
Il governo, o, come dicono, lo Stato giustiziere, moderatore della lotta sociale, amministratore imparziale degli interessi del pubblico, è una menzogna, è un'illusione, un'utopia, mai realizzata e mai realizzabile.
Se davvero gl'interessi degli uomini dovessero essere contrarii gli uni agli altri, se davvero la lotta fra gli uomini fosse legge necessaria delle società umane e la libertà di uno dovesse trovare un limite nella libertà degli altri, allora ciascuno cercherebbe sempre di far trionfare gli interessi proprii su quelli degli altri, ciascuno tenterebbe di allargare la propria libertà a scapito della libertà altrui, e si avrebbe un governo, non già perché sia più o meno utile alla totalità dei membri di una società averne uno, ma perché i vincenti vorrebbero assicurarsi i frutti della vittoria, sottoponendo solidamente i vinti, e liberarsi dal fastidio di star continuamente sulla difesa, incaricando di difenderli degli uomini, specialmente addestrati al mestiere di gendarmi. Allora l'umanità sarebbe destinata a perire, o a dibattersi perennemente tra la tirannide dei vincitori e la ribellione dei vinti.
Ma per fortuna più sorridente è l'avvenire dell'umanità, perché più mite è la legge che la governa.
Questa legge è la solidarietà.
L'uomo ha, come proprietà fondamentali, necessarie, l'istinto della propria conservazione, senza del quale nessun essere vivo potrebbe esistere, e l'istinto della conservazione della specie, senza cui nessuna specie avrebbe potuto formarsi e durare. Egli è spinto naturalmente a difendere l'esistenza ed il benessere di se stesso e della propria progenitura, contro tutto e tutti.
Due modi trovano in natura gli esseri viventi per assicurarsi l'esistenza e renderla più piacevole: uno è la lotta individuale contro gli elementi e contro gli altri individui della stessa specie o di specie diversa; l'altro è il mutuo appoggio, la cooperazione, che può anche chiamarsi l'associazione per la lotta contro tutti i fatti naturali contrari all'esistenza, allo sviluppo ed al benessere degli associati.
Non occorre indagare in queste pagine, e noi potremmo per ragione di spazio, quanta parte hanno rispettivamente nell'evoluzione del regno organico questi due principii della lotta e della cooperazione.
Ci basterà constatare come nell'umanità la cooperazione (forzata o volontaria) sia diventata il solo mezzo di progresso, di perfezionamento, di sicurezza; e come la lotta - resto atavico - sia diventata completamente inetta a favorire il benessere degli individui, e produca invece il danno di tutti, e vincitori e perdenti.
L'esperienza, accumulata e tramandata dalle generazioni successive, ha insegnato all'uomo che, unendosi agli altri uomini, la sua conservazione è più assicurata ed il suo benessere ingrandito. Così, in conseguenza della stessa lotta per l'esistenza, combattuta contro la natura ambiente e contro individui della stessa sua specie, si è sviluppato negli uomini l'istinto sociale, che ha completamente trasformato le condizioni della sua esistenza. In forza di esso l'uomo potette uscire dall'animalità, salire a potenza grandissima ed elevarsi tanto al disopra degli altri animali, che i filosofi spiritualisti han creduto necessario inventare per lui un'anima immateriale ed immortale.
Molte cause concorrenti han contribuito alla formazione di questo istinto sociale, che, partendo dalla base animale dell'istinto della conservazione della specie (che è l'istinto sociale ristretto alla famiglia naturale) è arrivato ad un grado eminente in intensità ed in estensione, e costituisce ormai il fondo stesso della natura morale dell'uomo.
L'uomo, comunque uscito dai tipi inferiori dell'animalità, essendo debole e disarmato per la lotta individuale contro le bestie carnivore, ma avendo un cervello capace di grande sviluppo, un organo vocale atto ad esprimere con suoni diversi le varie vibrazioni cerebrali, e delle mani specialmente adatte per dar forma voluta alla materia, dovette sentire ben presto il bisogno ed i vantaggi dell'associazione; anzi si può dire che solo allora potette uscire dall'animalità quando divenne sociale, ed acquistò l'uso della parola, che è nello stesso tempo conseguenza e fattore potente della sociabilità.
Il numero relativamente scarso della specie umana, rendendo meno aspra, meno continua, meno necessaria la lotta per l'esistenza tra uomo ed uomo, anche al di fuori dell'associazione, dovette favorire molto lo sviluppo dei sentimenti di simpatia e lasciar tempo che l'utilità del mutuo appoggio si potesse scoprire ed apprezzare.
Infine la capacità acquistata dall'uomo, grazie alle sue qualità primitive applicate in cooperazione con un numero più o meno grande di associati, di modificare l'ambiente esterno ed adattarlo ai propri bisogni; il moltiplicarsi dei desiderii che crescono coi mezzi di soddisfarli e diventano bisogni; la divisione del lavoro che è conseguenza della sfruttamento metodico della natura a vantaggio dell'uomo, han fatto sì che la vita sociale è diventata l'ambiente necessario dell'uomo, fuori del quale esso non può vivere, e, se vive, decade allo stato bestiale.
E, per l'affinarsi della sensibilità col moltiplicarsi dei rapporti, e per l'abitudine impressa nella specie dalla trasmissione ereditaria per migliaia di secoli, questo bisogno di vita sociale, di scambio di pensieri e di affetti tra uomo e uomo è diventato un modo di essere necessario del nostro organismo, si è trasformato in simpatia, amicizia, amore, e sussiste indipendentemente dai vantaggi materiali che l'associazione produce, tanto che per soddisfarlo si affrontano spesso sofferenze di ogni genere ed anche la morte.
Insomma i vantaggi grandissimi che l'associazione apporta all'uomo; lo stato d'inferiorità fisica, affatto proporzionato alla sua superiorità intellettuale, in cui egli si trova di fronte alle bestie se resta isolato; la possibilità per l'uomo di associarsi ad un numero sempre crescente d'individui ed in rapporti sempre più intimi e complessi fino ad allargare l'associazione a tutta l'umanità ed a tutta la vita, e forse più di tutto la possibilità per l'uomo di produrre, lavorando in cooperazione cogli altri, più di quello che gli occorre per vivere, ed i sentimenti affettivi che da tutto questo derivano, han dato alla lotta per l'esistenza umana un carattere affatto diverso dalla lotta che si combatte in generale dagli altri animali.
Quantunque oggi si sa - e le ricerche dei moderni naturalisti ce ne apportano ogni giorno nuove prove - che la cooperazione ha avuto ed ha nello sviluppo del mondo organico una parte importantissima che non sospettavano coloro che volevano giustificare, ben a sproposito del resto, il regno della borghesia colle teorie darwiniane, pure il distacco tra la lotta umana e la lotta animale resta enorme, e proporzionale alla distanza che separa l'uomo dagli altri animali.
Gli altri animali combattono, o individualmente, o più spesso in piccoli gruppi fissi o transitorii, contro tutta la natura, compresi gli altri individui della loro stessa spese. Gli stessi animali più sociali, come le formiche, le api, ecc., sono solidali tra gli individui dello stesso formicaio o dello stesso alveare, ma sono o in lotta, o indifferenti verso le altre comunità della loro specie. La lotta umana invece tende ad allargare sempre più l'associazione tra gli uomini, a solidarizzare i loro interessi, a sviluppare il sentimento di amore di ciascun uomo per tutti gli uomini, a vincere e dominare la natura esterna coll'umanità e per l'umanità.Ogni lotta diretta a conquistare dei vantaggi indipendentemente dagli altri uomini o contro di essi, contraddice alla natura sociale dell'uomo moderno e tende a respingerlo verso l'animalità.
La solidarietà, cioè l'armonia degli interessi e dei sentimenti, il concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno, è lo stato in cui solo l'uomo può esplicare la sua natura e raggiungere il massimo sviluppo ed il massimo benessere possibile. Essa è la meta verso cui cammina l'evoluzione umana; è il principio superiore che risolve tutti gli antagonismi attuali, altrimenti insolubili, e fa sì che la libertà di ciascuno non trovi il limite, ma il complemento, anzi le condizioni necessarie di esistenza, nella libertà degli altri.
"Nessun individuo", diceva Michele Bakunin, "può riconoscere la sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nell'idea ma nel fatto, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini miei uguali".
"M'importa molto ciò che sono tutti gli altri uomini, perché, per quanto indipendente io sembri o mi creda per la mia posizione sociale, fossi pure Papa, Czar, Imperatore o anche primo ministro, io sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi tra loro: se essi sono ignoranti, miserabili, schiavi, la mia esistenza è determinata dalla loro schiavitù. Io, uomo illuminato od intelligente, per esempio, sono - se è il caso - stupido per la loro stupidaggine; io coraggioso sono schiavo per la loro schiavitù; io ricco tremo dinanzi alla loro miseria; io privilegiato impallidisco innanzi alla loro giustizia. Io che voglio esser libero, non lo posso, perché intorno a me tutti gli uomini non vogliono ancora esser liberi, e non volendolo, divengono contro di me degli strumenti di oppressione".
La solidarietà dunque è la condizione nella quale l'uomo raggiunge il massimo grado di sicurezza e di benessere; e perciò l'egoismo stesso, cioè la considerazione esclusiva del proprio interesse spinge l'uomo e le società umane verso la solidarietà; o, per meglio dire, egoismo ed altruismo (considerazione degli interessi altrui) si confondono in un solo sentimento, come si confondono in uno l'interesse dell'individuo e l'interesse della società.
Sennonché l'uomo non poteva d'un tratto solo passare dall'animalità all'umanità, dalla lotta brutale tra uomo e uomo, alla lotta solidale di tutti gli uomini affratellati contro la natura esteriore.
Guidato dai vantaggi che offre l'associazione e la conseguente divisione del lavoro, l'uomo evolveva verso la solidarietà; ma la sua evoluzione incontrò un ostacolo che l'ha deviata e la devia ancora dalla mèta. L'uomo scoprì che poteva, almeno fino ad un certo punto e per i bisogni materiali e primitivi che allora solamente sentiva, realizzare i vantaggi della cooperazione sottomettendo a sé gli altri uomini invece di associarseli; e, siccome erano ancora potenti in lui gl'istinti feroci ed antisociali ereditati dalle bestie progenitrici, egli costrinse i più deboli a lavorare per lui, preferendo la dominazione alla associazione. Forse anche, nella più parte dei casi, fu sfruttando i vinti che l'uomo imparò per la prima volta a comprendere i benefizi dell'associazione, l'utile che l'uomo poteva ricavare dall'appoggio dell'uomo.
Così la constatazione dell'utilità della cooperazione, che doveva condurre al trionfo della solidarietà in tutti i rapporti umani, mise capo invece alla proprietà individuale ed al governo, cioè allo sfruttamento del lavoro di tutti da parte di pochi privilegiati.
Era sempre l'associazione, la cooperazione, fuori della quale non v'è più vita umana possibile; ma era un modo di cooperazione, imposto e regolato da pochi nel loro interesse particolare.
Da questo fatto è derivata la grande contraddizione, che riempie la storia degli uomini, tra la tendenza ad associarsi ed affratellarsi per la conquista e l'adattamento del mondo esteriore ai bisogni dell'uomo, e per la soddisfazione dei sentimenti affettivi, e la tendenza a dividersi in tante unità separate ed ostili quanti sono gli aggruppamenti determinati da condizioni geografiche, quante sono le posizioni economiche, quanti sono gli uomini che sono riusciti a conquistare un vantaggio e vogliono assicurarselo ed aumentarlo, quanti sono quelli che sperano conquistare un privilegio, quanti sono quelli che soffrono di un'ingiustizia o di un privilegio e si ribellano e vogliono redimersi.
Il principio del ciascun per sé, che è la guerra di tutti contro tutti, è venuto nel corso della storia a complicare, a deviare, a paralizzare la guerra di tutti contro la natura per il maggior benessere dell'umanità, che solo può avere esito completo fondandosi sul principio tutti per uno e uno per tutti.
Immensi sono stati i mali che ha sofferto l'umanità per questo intromettersi della dominazione e dello sfruttamento in mezzo all'associazione umana. Ma malgrado l'oppressione atroce cui sono state sottomesse le masse, malgrado la miseria, malgrado i vizi, i delitti, la degradazione che la miseria e la schiavitù producono negli schiavi e nei padroni, malgrado gli odii accumulati, malgrado le guerre sterminatrici, malgrado l'antagonismo degl'interessi artificialmente creato, l'istinto sociale ha sopravvissuto e si è sviluppato. La cooperazione restando sempre la condizione necessaria perché l'uomo potesse lottare con successo contro la natura esteriore, restò pure come causa permanente dell'avvicinamento degli uomini e dello svilupparsi del sentimento di simpatia tra gli uomini. L'oppressione stessa delle masse ha affratellati gli oppressi fra loro; ed è stato solo in forza della solidarietà più o meno cosciente e più o meno estesa, che esisteva fra gli oppressi, che questi han potuto sopportare l'oppressione e che l'umanità a resistito alle cause di morte che si sono insinuate in mezzo ad essa.
Oggi lo sviluppo immenso che ha preso la produzione, il crescere di quei bisogni che non possono soddisfarsi se non col concorso di gran numero di uomini di tutti i paesi, i mezzi di comunicazione, l'abitudine dei viaggi, la scienza, la letteratura, i commerci, le guerre stesse, hanno stretto e vanno sempre più stringendo l'umanità in un corpo solo, le cui parti, solidali tra loro, possono solo trovare pienezza e libertà di sviluppo nella salute delle altre parti e del tutto.
L'abitante di Napoli è tanto interessato alla bonifica dei fondaci della sua città, quanto al miglioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni delle sponde del Gange, di dove gli viene il colera. Il benessere, la libertà, l'avvenire di un montanaro perduto fra le gole degli Appennini, non solo dipendono dallo stato di benessere o di miseria in cui si trovano gli abitanti del suo villaggio. non solo dipendono dalle condizioni generali del popolo italiano, ma dipendono pure dallo stato dei lavoratori in America o in Australia, dalla scoperta che fa uno scienziato svedese, dalle condizioni morali e materiali dei Cinesi, dalla guerra o dalla pace che si fa in Africa, da tutte insomma le circostanze grandi e piccine che in punto qualunque del mondo agiscono sopra un essere umano.
Nelle condizioni attuali della società. questa vasta solidarietà che unisce insieme tutti gli uomini è in gran parte incosciente, poiché sorge spontanea dall'attrito degli interessi particolari, mentre gli uomini si preoccupano punto o poco degli interessi generali. E questa è la prova più evidente che la solidarietà è legge naturale dell'umanità, che si esplica e s'impone malgrado tutti gli ostacoli. malgrado tutti gli antagonismi creati dall'attuale costituzione sociale.
D'altra parte le masse oppresse, che non si sono mai completamente rassegnate all'oppressione ed alla miseria, e che oggi più che mai si mostrano assetate di giustizia, di libertà, di benessere, incominciano a capire che esse non potranno emanciparsi se non mediante l'unione, la solidarietà con tutti gli oppressi, con tutti gli sfruttati del mondo tutto. Ed esse capiscono pure che condizione imprescindibile della loro emancipazione è il possesso dei mezzi di produzione, del suolo e degli strumenti di lavoro, e quindi l'abolizione della proprietà individuale. E la scienza, l'osservazione dei fenomeni sociali, dimostra che questa abolizione sarebbe di utile immenso agli stessi privilegiati, se solo volessero rinunziare al loro spirito di dominazione e concorrere con tutti al lavoro per il benessere comune.
Ora dunque, se un giorno le masse oppresse si rifiuteranno di lavorare per gli altri, se leveranno ai proprietari la terra e gli strumenti di lavoro o vorranno adoperarli per conto e profitto proprio, cioè di tutti, se esse non vorranno più subire dominazione né di forza brutale, né di privilegio economico, se la fratellanza fra i popoli, il sentimento di solidarietà umana rafforzato dalla comunanza d'interessi avrà messo fine alle guerre ed alle conquiste, quale ragione di esistere avrebbe più un governo?
Abolita la proprietà individuale, il governo che è il suo difensore, deve sparire. Se sopravvivesse esso tenderebbe continuamente a ricostituire, sotto una forma qualsiasi, una classe privilegiata ed oppressiva.
E l'abolizione del governo, non significa, non può significare il disfacimento della connessione sociale. Bene al contrario, la cooperazione che oggi è forzata, che oggi è diretta al vantaggio di pochi, sarebbe libera, volontaria e diretta al vantaggio di tutti; e perciò diventerebbe tanto più intensa ed efficace.
L'istinto sociale, il sentimento di solidarietà si svilupperebbe al più alto grado: e ciascun uomo farebbe tutto quello che può per il bene degli altri uomini, tanto per soddisfare ai suoi sentimenti affettivi, quanto per beninteso interesse.
Dal libero concorso di tutti, mediante l'aggrupparsi spontaneo degli uomini secondo i loro bisogni e le loro simpatie, dal basso all'alto, dal semplice al composto, partendo dagli interessi più immediati per arrivare a quelli più lontani e più generali, sorgerebbe un'organizzazione sociale, che avrebbe per scopo il maggior benessere e la maggiore libertà di tutti, abbraccerebbe tutta l'umanità in fraterna comunanza e si modificherebbe e migliorerebbe a seconda del modificarsi delle circostanze e degli insegnamenti dell'esperienza.
Questa società di liberi, questa società di amici è l'anarchia.

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