EDITORIALE N.3
Finire dentro è sempre più facile e sempre più comportamenti vengano criminalizzati e dichiarati fuorilegge, basti pensare alle ordinanze antibivacco, alle leggi sull'immigrazione, sulla droga o sulla prostituzione. Carcere, repressione e punizione sono delle realtà contro cui chi per necessità, per scelta o anche solo per sfortuna, non si sottomette alla legge impatterà purtroppo sempre più spesso.
Anche il sistema giudiziario dal canto suo si sta evolvendo e giorno dopo giorno ci troviamo di fronte a precedenti sempre più inquietanti: il reato di cui veniamo accusati diventa secondario rispetto al tipo di linea processuale che scegliamo di tenere.
Non veniamo giudicati in base a ciò che abbiamo commesso, ma in base a chi siamo e a quanto siamo disposti a piegarci supinamente di fronte a chi ci giudica. L'uso sempre più massiccio dei reati associativi, con i quali appunto si viene colpiti non tanto perché ritenuti responsabili di un reato specifico quanto per l'appartenenza a "un certo giro" di cui si condividono gli intenti, o l'introduzione del reato di compartecipazione psichica che compara, ad esempio, chi in un corteo spacca una vetrina a chi gli sta di fianco se non si prodiga per impedirglielo o per farlo arrestare, non lasciano molti dubbi su quanto sia vuota la retorica dello stato di diritto o su quanto sia effimera la libertà che all'interno dei suoi confini ci è concessa. Siamo stretti in una morsa che, schiacciando alcuni, restringe la libertà di molti, il tutto finalizzato alla protezione degli interessi dei soliti pochi potenti.
Questo disastro sociale si mantiene spacciando le proprie contraddizioni strutturali per delle sfighe private. Pensiamo, come esempio di base, che quando c'è chi ha troppo c'è sempre chi ha troppo poco e che, finché si manterrà questa situazione, chi ha troppo non sarà mai al sicuro. Vogliono farci credere che il problema non sia ciò che ci viene imposto ma il non adattarsi, il non piegarsi, e così finiamo per sentirci soli e impotenti quando incappiamo nelle maglie dei mega-racket del potere e delle sue istituzioni: magistratura, sbirri e burocrazia annessa. Racket per l'appunto. Legali, ma non per questo diversi da altri che gestiscono i propri affari nell'ombra: sappiamo tutti, per esempio, quanto la differenza tra la libertà e la galera stia più in quanto si ha la possibilità di pagare per un buon avvocato che in ciò che si ha (o non si ha) realmente commesso. Niente di nuovo in un mondo basato sul denaro, né di sorprendente se si pensa che gli stati bombardano popolazioni inermi per interessi economici, però tra questi racket e altri illegali vi è una cruciale, seppur non sostanziale, differenza: i racket istituzionali pretendono di essere considerati Giusti e di giudicarci. Il quieto vivere di chi ci vuole ridotti in catene ha bisogno dell'accettazione di questi valori imposti: dobbiamo introiettare il senso di colpa, di sconfitta, e di impotenza. E così, dai mass-media agli sguardi dei benpensanti, ai luoghi comuni che i loro crampi mentali partoriscono, tutto contribuisce a forgiare sinergicamente un'oscena morale per la quale chi rinchiude ha ragione, mentre chi ha sbagliato se ne deve vergognare.
Come se non bastasse, i veleni di questa morale si diffondono fino a far ricadere, inesorabilmente, le colpe di chi "sbaglia" su chi gli sta vicino, il quale poi a sua volta è tenuto a vergognarsi per le nefandezze che gli sgherri gli infliggono. Per la repressione, riuscire a infondere questo senso di sconfitta negli individui su cui si accanisce è altrettanto importante che erigere mura, piazzare guardie, telecamere e fili spinati.
Adeguamento, rassegnazione e sottomissione tanto fuori quanto dietro le sbarre sono, per chi ha in pugno le chiavi delle nostre vite, requisiti necessari per impedire che qualcuno deragli dai binari dell'ordine imposto. Se una volontà piegata fa già da sola metà del lavoro di tenersi rinchiusa, chi ha maturato uno spirito fiero e ribelle (o anche solo percepisce che gli unici a "doversi vergognare" sono quelli che chiudono altri in gabbia per proteggere i propri interessi) deve costantemente essere tenuto sott'occhio in quanto rappresenta sempre una possibile minaccia. Non fomentiamo illusioni, non stiamo dicendo che basta capire o volere una cosa (come ad esempio la libertà o anche solo lottare contro i soprusi) per ottenerla ma che, sicuramente, se non si comincia dal volerla mai ci si ci sforzerà perché diventi una realtà.
Banale aggiungere che le cose non cadono dal cielo. Ciò che avete tra le mani nasce da individui che, alcuni da fuori e altri da dentro il carcere, hanno iniziato a rimboccarsi le maniche nella speranza di incontrarne altri che abbiano intenzione di farlo. L'idea è quella di sbugiardare questi apparati che monolitici e inattaccabili non sono e che, troppo spesso, beneficiano di un rispetto totalmente immeritato. Inquadriamo la questione carcere nei suoi termini reali, facciamolo soprattutto per darci forza altrimenti se li affrontiamo da soli "loro" rimarranno sempre più forti .
Non ce ne frega niente di fare assistenzialismo, cerchiamo persone disposte a confrontarsi da pari a pari per instaurare rapporti solidali in una prospettiva di opposizione al carcere e a tutto ciò che lucrosamente ci gravità attorno. Un paio di anni fa a Bologna è nato "Scheggia", bollettino antireclusione, con l'intento di creare uno strumento che collegasse il dentro con il "fuori", per dare ai detenuti una seppur modesta possibilità di far sentire la propria voce in città senza i filtri e le censure che canali ben più grossi, come giornali o associazioni, impongono.
Ora "Scheggia" ha deciso di ripartire allargando un po' i suoi orizzonti e, soprattutto, con l'aggiunta di altre persone. Non siamo giornalisti, ricercatori o filantropi, conosciamo il carcere perché sta purtroppo toccando uno di noi, ha toccato direttamente altri e ha strappato compagni e amici a tutti. Nell'editoriale del primo numero spiegavamo che ci sarebbe piaciuto scrivere "Scheggia" insieme, con contributi provenienti sia da dentro che da "fuori". Per questo saranno i vostri scritti, che pubblicheremo in maniera anonima a meno che non vogliate il contrario, la linfa vitale di questo progetto.
Cerchiamo di distribuire Scheggia "fuori" e di farlo circolare dentro spedendolo o portandolo ai parenti che attendono i colloqui. Scheggia, come i presidi con la musica che in varie città periodicamente si tengono sotto le carceri non sono forse che piccolissimi passi ma a noi interessa camminare avendo chiara la direzione.
A volte mentre si cammina viene voglia di correre.
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Scheggia
via San Vitale 80
40127 Bologna.
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scheggia@canaglie.net
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