martedì 31 maggio 2011

Aborto e liberazione animale: David Olivier

La questione dell'aborto è stata già trattata su queste pagine da Carol Adams, in un articolo sul femminismo e la liberazione animale1. Tuttavia, capita ancora che ci venga chiesto, sia da avversari che da sostenitori della libertà di abortire, qual è la nostra posizione in merito. I primi sembrano generalmente sperare, e i secondi temere, che siamo contro l'aborto, probabilmente perché il vegetarismo è spesso associato all'idea di «rispetto di ogni vita» e di ascetismo «morale» (nel senso puritano che in genere si dà a questa parola).
L'idea secondo la quale occorre necessariamente prendere una posizione estrema - e di fatto insostenibile - di «rispetto di ogni vita» nel momento in cui si rispetta quella delle mucche e dei polli che vengono ammazzati per niente, consegue essa stessa da una concezione delle cose profondamente specista. Questo non mi impedirà di prendere sul serio la questione e di sviluppare qualche riflessione.

Perché sostengo la libertà di abortire

Prima di affrontare il nesso tra la questione dell'aborto e la liberazione animale, spiegherò la mia posizione personale.
Per esempio, personalmente non rispetto la vita delle piante. Non perché le disprezzi, ma perché non penso che siano sensibili, ovvero che percepiscano ciò che succede loro2. Se esse non provano né piacere nel vivere, né sofferenza nell'essere tagliate o sradicate, né dispiacere di dover morire, non trovo ragioni per non farne l'uso che mi conviene, e in particolare per non mangiarle.
Prendo l'esempio delle piante per mostrare la differenza tra rispettare la vita in sé (fenomeno incosciente di sviluppo e riproduzione) e rispettare la vita sensibile, ovvero prendere in considerazione gli interessi degli esseri che hanno degli interessi che devono essere rispettati.
Ora, è praticamente certo che l'embrione umano3 non è sensibile almeno durante le prime 18 settimane di gravidanza (su un totale di 38 settimane) per via dell'assenza prima e dell'immaturità poi del suo sistema nervoso. Il neonato invece è sensibile; la sensibilità appare dunque ad un certo momento nel corso della seconda metà della gravidanza. Prima, l'essere in questione, che non prova né piacere né dolore, né timori né speranze, non mi sembra moralmente più significativo di un filo d'erba o di un sasso.
Ovviamente si potrebbe rispondere che si tratta di un futuro essere sensibile, che bisogna rispettare la sua vita potenziale; mi si potrebbe chiedere, ad esempio: «E a te sarebbe piaciuto se tua madre avesse abortito?»
Ebbene, l'idea che potrei non esistere mi è forse sgradevole (non fa mai piacere pensare alla propria contingenza), ma immaginarla come conseguenza di un aborto non è più sgradevole che immaginarla come conseguenza della contraccezione, o dell'astinenza dei miei genitori o dall'ipotesi che non si siano incontrati. La sola cosa che il concepimento assegna ad un essere e che prima non esisteva è il patrimonio genetico; ma non vedo in cosa ciò implicherebbe che quell'organismo insensibile, senza storia e senza progetti, che possedeva quel codice genetico particolare fossi io, più di quanto lo sarebbe un embrione che fosse clonato a partire dal mio corpo o un fratello gemello omozigote di cui apprendessi oggi l'esistenza4.
L'aborto praticato durante le prime 18 settimane dopo la fecondazione, durante le quali l'embrione non è sicuramente sensibile, mi sembra assimilabile ad una semplice contraccezione tardiva. Tuttavia, la decisione di abortire o meno non è di poco conto, perché essa determina l'esistenza di un futuro essere sensibile; ma allo stesso titolo di una contraccezione o di una sterilizzazione o dell'assenza stessa di relazioni sessuali. Penso che oltre al desiderio che si ha oppure no di avere un bambino, in questa decisione occorra tener conto, in particolar modo, da un lato della felicità a cui il bambino può aspirare e dall'altro della sovrappopolazione mondiale. Ma questo è un altro discorso; in ogni caso, poiché in generale non si costringe la gente ad avere bambini, non vedo perché una donna dovrebbe esservi costretta più di un prete che ha scelto il celibato.
Se una donna vuole abortire, penso che abbia il diritto di poterlo fare senza restrizioni, almeno fino a 18 settimane dopo la fecondazione; considerando poi la realtà sociale, penso che occorra fare tutto il possibile perché questo sia facile e gratuito, almeno nei casi in cui il costo dell'operazione costituirebbe un ostacolo5.
Spesso si oppone agli antiabortisti il semplice argomento della libertà della donna. Questo non può bastare se non si aggiunge appunto che l'embrione non ha degli interessi propri. Senza questa precisazione, si tratta di una petizione di principio priva di sostanza, allo stesso titolo della «libertà di mangiar carne» che ci viene opposta quando mettiamo in luce gli interessi degli animali. E il problema si pone effettivamente nel caso di un aborto in stato avanzato di gravidanza, dal momento che nel corso della seconda metà della gravidanza il feto ha acquisito una sensibilità e, con essa, almeno l'interesse a non soffrire.
L'ideale sarebbe che, in questo caso, si prendano in considerazione in ugual modo gli interessi della madre e quelli del feto. In questo caso, non posso avere una posizione teorica altrettanto netta di quella relativa alla prima metà della gravidanza, quando il feto non è sensibile; senza entrare in particolari, e visto il carattere piuttosto sommario degli interessi del feto, penso comunque che in pratica la cosa migliore da fare sia di lasciare la decisione alla donna convolta6.
Ciò che potrebbe essere fatto in ogni caso per tutelare gli interessi del feto maturo è aver cura che non soffra durante l'aborto. I paraocchi specisti – assunti tanto dagli antiabortisti che dai loro oppositori – conducono a dispute intorno alla domanda assurda se l'embrione è o no un essere umano. Secondo la risposta data, si dichiarerà che la sua vita è sacra oppure al contrario gli si negherà nel modo più assoluto una rilevanza morale. Gli uni e gli altri tralasciano di prendere in considerazione quello che a mio avviso è l'unico dato importante, ovvero gli interessi effettivi degli esseri che ne hanno, e in special modo l'interesse eventuale dell'embrione a non soffrire. Non sono abbastanza informato sulle tecniche di aborto per poterne dire di più, ma mi sembra logico che tra le preoccupazioni della liberazione animale ci sia quella di pesare sulla stessa bilancia gli interessi dei feti umani maturi, anch'essi animali. (La facilità di accesso ad un aborto precoce permette anche di ridurre il numero di aborti tardivi, che sono tra l'altro più dolorosi per la donna).

Aborto e liberazione animale

La posizione antiabortista si basa spesso sull'attribuzione all'embrione umano di una grande importanza, di una inviolabilità, di un carattere sacro, semplicemente per via della sua appartenenza alla nostra specie. Ciò che gli avversari dell'aborto vogliono proteggere, è la vita umana, indipendentemente dal suo carattere sensibile. Queste posizioni sono all'opposto rispetto alla liberazione animale.
Come afferma Carol Adams7:
Lo specismo si esprime al suo più alto grado nella protesta sul destino del concepito umano, laddove il carattere sensibile di altri animali è dichiarato moralmente non significativo perché non sono umani. Certi antiabortisti definiscono la vita moralmente significativa in modo talmente largo che essa ingloba l'ovulo appena fertilizzato, e nello stesso tempo talmente ristretto che animali adulti con un sistema nervoso ben sviluppato ne sono esclusi.
Gli antiabortisti attribuiscono una grande importanza alla fecondazione, che fissa l'identità genetica dell'essere. Così anche i cattolici tradizionalisti, che condannano la contraccezione, non la definiscono un omicidio, diversamente dall'aborto. Sembra che per gli antiabortisti, l'essenza di un essere si trovi nella sua identità genetica. Questa idea per me assurda – perché se il nostro genoma ci determina lo fa allo stesso modo di un qualunque fattore ambientale, e l'«innato» non ha uno statuto diverso dall'«acquisito» - è al centro del razzismo, del sessismo e dello specismo. Certo, non si è necessariamente razzisti, sessisti o specisti se si professa questa idea; ma la liberazione animale può più facilmente farne a meno che adattarvisi.
Non si può negare che ci sono delle persone che si oppongono sia all'aborto che allo sfruttamento animale da parte degli umani. La loro posizione mi sembra tuttavia andar contro corrente rispetto alla logica della liberazione animale.

Notes :

1. «Anima, animus, animal», nei CA n°3 (aprile 1992), pp. 11 à 14.
2. Argomenti in favore della non sensibilità delle piante si trovano in Liberazione animale di Peter Singer (A. Mondadori editore, 1975, 1990), pp. 243-244, e nell'articolo di Yves Bonnardel, «Qualche riflessione in merito alla sensibilità che alcuni attribuiscono alle piante», nei CA n°5 (dicembre 1992), pp. 34 – 38.
3. L'animale è chiamato embrione tra il suo concepimento e la sua nascita in modo specifico all'inizio della gestazione (i primi tre mesi negli umani), e feto appena comincia a presentare una morfologia generale (testa, arti etc.) riconoscibile.
4. Del resto, i gemelli omozigoti pongono un problema a coloro che ritengono che l'embrione è un individuo umano fin dalla fecondazione: non può esserci individuo a quello stadio, visto che la divisione da cui nasceranno i gemelli avviene qualche giorno dopo la fecondazione. In potenza, un embrione potrebbe essere diviso all'infinito, se abortire fosse un omicidio per via della semplice potenzialità, allora si tratterebbe di un'infinità di omicidi, il che sembra abbastanza assurdo.
5. La legge francese autorizza l'aborto solo durante le prime dieci settimane. Questa restrizione è assurda e, aggiunta ad altre, ha delle conseguenze spesso gravi. Altri Paesi consentono un aborto più tardivo.
6. Si può difendere l'idea che l'essere che non è cosciente della sua esistenza nel tempo può avere un interesse a non soffrire ma non ad essere ucciso. È quanto fa Peter Singer, in Liberazione animale cit., pp. 33-34, e in modo più sviluppato in Etica pratica (Liguori 1989). V. anche in questo numero dei CA l'articolo di Karin Karcher, «Les animaux, la mort, et l'acte de tuer», e, nel numero 4 (luglio 1992), pp. 5-12, Singer, «L'éthique appliquée». La mia posizione è identica nelle conclusioni a quella di Singer, pur partendo da un punto di vista teorico diverso (utilitarismo edonista).

PUNCH

i punch sono un gruppo vegan straight edge di san francisco. hanno partorito questo cd omonimo nel 2009 sotto la discos huelga. 14 canzoni di hardcore velocissimo con influenze powerviolence. visti l'hanno scorso al fluff fest. voto 8 su 10


01. Don't Start
02. Fuming
03. Get Back
04. Ol'Factory
05. Right Of Way
06. If Not Me
07. Been Here Before
08. We're Not In This Together
09. The Bad Times
10. Make The Good Times That Much Better
11. If You Can't Now, You Never Could
12. Break A Leg
13. Rewrite
14. Mending Is Better Than Ending
15. Not So Posi After All
16. Feminists, Don't Have A Cow


PUNCH - S/T 

HARDCORE IS MORE THAN MUSIC

FATAL ERROR

THE DRINKING SESSION 88/92 DEI FATAL ERROR DALL'OLANDA(CREDO) CI SON POCHE INFORMAZIONI SU DI LORO (hanno componenti dei last days of humanity) LI HO TROVATI FRUGANDO NELLA MIA LIBRERIA.. POWERVIOLENCE/GRIND ROZZO E CAOTICO..  CONFESSO CHE MI PRENDONO UN PO' AL CAZZO


THE DRINKING SESSION '88-'92

DIBORCE

questo cd è praticamente introvabile e sto gruppo non se lo caga praticamente nessuno (purtroppo) apparte in giappone da dove provengono i diborce.. fanno powerviolence/grindcore tiratissimo a due voci una scream e una growl. li ho trovati in una distro anni fa. super consigliatissimi per i fan dei dropdead, agathocles, insect warfare e magrudergrind.

ps. non ho messo nel cd i titoli delle canzoni perchè nel retro copertina è scritto tutto in giapponese e non ci capisco una mazza.. buon ascolto!!



DIBORCE - NEGATIVE ATTACK

BRAINDEAD

DEMO DEL 2003 DEL GRUPPO POWERVIOLENCE DI SASSARI.. (RIP)



DEMO 2003

DARK CASTLE

DOOM(FLORIDA)


SURRENDER TO ALL LIFE BEYOND FORM

Diritti delle donne e difesa degli animali: l'ecofemminismo di Carol J. Adams

premetto che non sono totalmente d'accordo con certe affermazioni di carol adams, come la critica di alcune strategie animaliste o il generalizzare sulle idee animaliste accostandole a quelle pro life (io sono vegano ma pro aborto) ma è comunque un articolo e un pensiero interessante, vale la pena leggerlo..


L'inclusione degli animali nell'etica femminile
Carol Adams riscontra che, sebbene le donne costituiscano la gran parte dei movimenti animalisti, il femminismo non si è mai interessato alla causa della liberazione animale con lo stesso fervore politico e filosofico con cui ha abbracciato altre istanze, come l'antirazzismo e la lotta di classe. Ciò è accaduto soprattutto perché, nel corso degli anni, molte femministe hanno recepito l'accostamento della liberazione delle donne alla liberazione animale come un modo per disumanizzare le donne. Esse, al contrario, fondavano la loro azione politica sulla rivendicazione dell'appartenenza della donna alla specie umana, del suo essere razionale e pensante al pari dell'uomo.
Ma, d'altra parte, sintetizza Adams, le filosofie femministe hanno sottolineato come l'assoggettamento delle donne nella cultura occidentale sia effetto dell'enfasi sulla razionalità e del conseguente disconoscimento del corpo. Poiché il corpo è stato svalutato, e poiché donne, animali e persone di colore sono state eguagliate al corpo, esse sono sempre state considerate "meno di". La questione è dunque: come rovesciare questa struttura? Dicendo che la razionalità è importante e che noi donne siamo esseri razionali, rivendicando l'appartenenza al campo da cui siamo state escluse e disconoscendo anche noi il corpo? Oppure rivalutando il corpo come fonte di conoscenza? In questo caso, secondo Adams, potremmo continuare a dire che gli animali sono fatti solo di corpo, che non sono razionali, ma estendendo loro le intuizioni femministe otterremmo la loro inclusione in una nuova sfera etica corporalizzata, fondata sui legami interpersonali, sull'amore responsabile, sulla trasmissione di conoscenza attraverso il corpo.
Lo scopo di Adams non è semplicemente mescolare i diritti animali e i diritti delle donne. Adams intende analizzare le strutture di oppressione, utilizzando gli strumenti concettuali del femminismo di seconda ondata[1], ed interpretare la barriera di specie come una di queste strutture. La barriera umano/animale, in questa prospettiva, è una forma di assoggettamento patriarcale; per abbatterla, è necessario in primo luogo riconoscere questo suo carattere e, successivamente, adoperarsi per il superamento della società maschilista.

Credo che il movimento femminista non abbia rivolto abbastanza attenzione – afferma Carol Adams – al fatto che la presenza di animali è molto spesso un presupposto della nostra oppressione. Le donne che subiscono violenza in casa vengono frequentemente terrorizzate, traumatizzate e ricattate dai loro oppressori attraverso il maltrattamento dei loro animali e dei loro figli. I bambini che subiscono abusi sessuali vengono ricattati con minacce agli animali. Gli atti di violenza sugli animali portano ad una conferma continua del potere maschile.

Secondo Adams, l'identità maschile si è progressivamente costruita, nella nostra cultura, anche attraverso l'alimentazione carnea e il controllo su altri corpi, che si trattasse di donne o di animali. "Uomo", che generalmente nella cultura occidentale si traduce con "uomo bianco", si costituisce come concetto e come identità sessuale solo attraverso la negazione. "Non donna", "non animale", "non di colore". cioè, "non altro". Inoltre, la biologia maschilista ha spesso difeso la supremazia maschile facendo appello alle leggi di natura: il maschio domina la sua femmina perché è ciò che la natura impone (salvo poi infastidirsi quando lo si classifica come animale). "Essere uomo" è legato ad una identità, definita da cosa i "veri uomini" possono e non possono fare. I "veri uomini" non mangiano la quiche , i "veri uomini" vanno a caccia. È interessante notare quanti insulti omofobici vengono lanciati dai cacciatori agli attivisti anti caccia di sesso maschile.

La critica alle filosofie animaliste tradizionali
Carol Adams non accetta né la liberazione animale di Peter Singer, né la teoria dei diritti animali di Tom Regan.

Non credo possiamo pensare ad una "liberazione" animale. I movimenti di liberazione sono movimenti di gruppi oppressi che sorgono dal loro interno. Non mi piace neanche usare la parola "diritti" quando parliamo di difesa degli animali. Il linguaggio dei diritti è un'eredità dell'Illuminismo, quello stesso Illuminismo che ha creato la problematica filosofica dell'individuo razionale.[2]

Il femminismo, afferma Adams, cambia completamente la scena. Non si tratta di prendere la filosofia dei diritti animali ed includervi le donne, ma di partire dal femminismo ed adoperarne le intuizioni fondamentali sul funzionamento del patriarcato. Il patriarcato è un sistema di genere che è implicito nella relazione umani/non umani: l'analisi delle sue strutture getta gran luce sul modo in cui vediamo gli animali.

La critica ad alcune strategie animaliste
Adams è fortemente contraria alle campagne antipellicce della PETA. L'attivismo, a suo parere, dovrebbe essere concentrato in primo luogo sull'abolizione dell'alimentazione carnea perché è questa la forma più seria di oppressione degli animali negli USA[3]. Concentrarsi sulla pelliccia è adottare uno sguardo misogino: la campagna antipellicce offre a molti attivisti per i diritti animali un ulteriore strumento per attaccare le donne.

Mi domando perché la campagna pellicce raccoglie tutta questa energia. La risposta è che si tratta di una delle poche forme di oppressione degli animali in cui le donne vengono viste come colpevoli, privatrici della vita. Penso che ciò alimenti il punto di vista antiabortista.

Secondo Adams, inoltre, la campagna PETA "I'd better go naked than wear fur" ("Preferisco andare in giro nuda piuttosto che indossare una pelliccia". La frase era accompagnata da una foto in cui diverse modelle posavano nude [n. d. t.]) accetta la costruzione culturale della donna come oggetto. Il messaggio subliminale di questa campagna sarebbe "puoi avere altri oggetti nella tua vita, basta che non siano animali: puoi avere donne oggetto". Si tratta di un forte motivo di scontro tra femministe ed attivisti per i diritti animali: perché questa è evidentemente una forma di partecipazione alla costruzione patriarcale dello sguardo maschile sul corpo femminile.

Il rifiuto dell'antiabortismo
Adams ritiene che la difesa degli animali abbia molto in comune con il movimento per il diritto all'aborto e per la libertà sessuale.

Penso che sostenere la difesa degli animali ed essere a favore dell'aborto siano due forme di opposizione alla maternità forzata. Sono contro la maternità forzata delle donne, delle mucche, dei conigli, dei maiali etc. Ho esaminato attentamente il linguaggio che viene usato per giustificare sia l'alimentazione carnea che l'antiabortismo e una delle cose che ho notato è entrambi argomentano a partire dalla "non vita": non è meglio per la mucca essere uccisa in modo "umanitario" piuttosto che non vivere affatto? Molte persone dicono la stessa cosa riguardo all'aborto: e se non mi avessero fatto nascere? Ma il fatto è che se non ti avessero fatto nascere non saresti qui a domandarti "e se.?" Le femministe devono riconoscere che ciò che facciamo agli animali in termini di oppressione è nefando, moralmente e politicamente. È profondamente antropocentrico, proprio come il movimento antiabortista, che in realtà è a favore della vita fetale solo per la specie umana.

Per Adams, si tratta di un problema di responsabilità. Le donne sono in grado di decidere moralmente e responsabilmente se un bambino deve nascere o no. Il movimento antiabortista, invece, non ha fiducia nelle donne: la donna è un referente assente nel discorso antiabortista. È chiaro quando si guarda alla rappresentazione del feto: fluttua nell'aria come se arrivasse dalle nuvole.

I diritti degli animali non sono antiumani
L'accusa fatta ai sostenitori dei diritti animali di essere antiumani rispecchia quella fatta alle femministe di essere contro gli uomini. Carol Adams afferma che di fatto, è lo sfruttamento degli animali che è antiumano.

Se il modello di umanità fosse femminile e vegetariano piuttosto che maschile e carnivoro, allora la nostra idea di natura umana sarebbe profondamente rimessa in causa. Gli animali sarebbero considerati parenti e non prede, o modelli sperimentali, o macchine animate: noi stessi ci vedremmo come radicalmente legati a questi parenti e non come dei predatori, o sperimentatori, o padroni. La ricostruzione femminista della natura umana include l'esame del modo in cui, in quanto umani, interagiamo con il mondo non umano. I diritti degli animali non sono antiumani: essi sono antipatriarcali.

Note
1. Il femminismo di prima ondata rivendicava l'inclusione delle donne nella sfera dei diritti civili e politici. Raggiunto questo scopo (almeno per ciò che riguarda il diritto di voto), dal secondo dopoguerra in poi la riflessione femminista si concentrò sull'analisi teorica dell'origine dell'assoggettamento delle donne e dei meccanismi della società patriarcale, nonché sull'elaborazione di un "pensiero della differenza" che valorizzasse le modalità con cui le donne si rapportano al mondo e agli altri esseri (metafisica femminile, etica della cura etc.) Per uno sguardo sul pensiero femminista nella sua evoluzione storica e nei suoi diversi aspetti, v. l'antologia Le filosofie femministe, a cura di A. Cavarero e F. Restaino, Bruno Mondatori, Milano 2002 [n. d. t.].
2. In realtà l'ipoteca maschile sulla razionalità e lo schiacciamento della donna nella sfera oscura dell'irrazionale ha radici ben più antiche! [n. d. t.].
3. .e non solo! [n. d. t.].

DIETRO LE CASE CHIUSE

A 50 anni dalla prima proposta di legge per la chiusura dei bordelli, sulla prostituzione continua ed evidenziare le ipocrisie della "morale" clericale, antifemminile e sessuofobica.

"... Quanti sifilitici à fatti solo lei? Mettiamo che sono solo 40 al giorno, che codesta bella signorina accontentava, dieci giorni 400 persone. Poi il resto, le conseguenze che vengono dopo". (Lettera N. 13)
"... La ragazza in un giorno a N. à fatto 42 uomini, e sfinita, al giorno dopo, viene la visita del Dottore e la manda all'ospedale con 4 croci in più di Lue [infezione generalmente trasmessa per contagio sessuale; sinonimo di sifilide n.d.r.], ormai una ragazza rovinata". (Lettera N. 19)
"... una giornata speciale contai 120 clienti, 120 lavaggi, 2400 scalini saliti e scesi, e poi, come se non bastasse (tralascio i particolari di scurrilità) alcuni clienti quando hanno finito... ci fanno la morale e ci esortano a cambiar vita... dobbiamo salvare l'anima, ci dicono!!! (Lettera N. 68)
Qualche volta mi capita di pensare che se alcuni libri fossero ristampati, divulgati e magari letti, forse qualcosa comincerebbe a cambiare. Poi invece tocco di nuovo terra e mi rendo conto che i libri da soli non bastano, che ci vuole ben altro. Che bisogna ricominciare a parlarne.
Per esempio di prostituzione.
I tre passi citati più sopra sono tratti da una pubblicazione del 1955, un libro delle Edizioni Avanti! curato da Lina Merlin e Carla Barberis. Lettere dalle case chiuse si intitola. Ed è una raccolta di 70 testimonianze pro e contro la chiusura dei casini corredata da una chiara appendice documentaria sulle norme che hanno regolamentato il mere tricio nel nostro Paese fino al 1958, nonché dal progetto di legge che la stessa senatrice socialista Merlin presentò per la chiusura delle case di tolleranza.
Il prossimo 6 agosto saranno passati 50 anni dalla prima proposta di legge in questo senso. Mezzo secolo. Mezzo secolo durante il quale sono accadute molte cose. Anche il femminismo.
Ma la prostituzione continua ad esistere. Come del resto la stessa Lina Merlin e le sue compagne sapevano bene che sarebbe stato.
E allora perché battersi, nel '48, per chiudere le case di tolleranza? e oggi, 50 anni dopo, perché tornare a ribadire le stesse cose: che i casini non possono essere riaperti; che la si deve smettere, una buona volta, con questa ipocrisia dei cosiddetti "parchi dell'amore"; che...?
Ma quale amore? Di che amore si sta parlando quando si parla di prostituzione? Tutte le donne che hanno scritto alla Merlin e alla Barberis, sia quelle favorevoli che quelle contro le Case, si sono definite dal di dentro "carne da Maciello" (Lettera N.55).
Ci si può credere. Perché al di là della letteratura, del cinema, dell'arte in generale, che hanno fatto spesso del bordello un luogo "mitico", la realtà raccontata da "quelle signorine" è ben diversa.
"Per difendere il mio intimo, il mio fondo, offrivo agli uomini solo la scorza superficiale", rivela Firdaus, prostituta egiziana d'alto bordo condannata a morte nel 1974 per avere ucciso il suo protettore. (Nawal al Sa'dawi, Firdaus, storia di una donna egiziana)
"Avevo imparato a resistere in maniera passiva, a mantenermi intatta non offrendo niente, a vivere rifugiandomi in un mondo tutto mio. In altre parole concedevo agli uomini il mio corpo, ma un corpo morto, ed essi non potevano suscitare reazioni o tremiti, né darmi piacere o pena".
Ma Firdaus rappresentava un'eccezione: lei era una prostituta di lusso, straordinariamente lucida e consapevole di se stessa.
Nelle case di tolleranza dell'Italia del dopoguerra, politicamente "immacolata", sulle strade dell'Italia di oggi, di tutt'altro orientamento politico, c'erano e ci sono soprattutto donne in mano alle multinazionali della prostituzione.
Ci sono le stesse umiliazioni di sempre, le stesse botte, lo stesso disumano sfruttamento, lo stesso "farsi" per poter vendere il proprio corpo senza stare troppo male. C'è anche la morte, spesso.
In compenso c'è più scelta per i clienti: slave, nigeriane, albanesi... E poi il top della trasgressione: i "trans".
È curioso come a rileggere vecchi libri e vecchie carte salti sempre fuori, anche a proposito della mercificazione del sesso, l'esercito, la guerra.
"L'origine della regolamentazione [del meretricio n.d.r.] che data dal 1802 in Francia e fu estesa in altri paesi d'Europa negli anni successivi, va ricercata in effetti nel presupposto che essa rappresentasse un mezzo di profilassi antivenerea per preservare gli eserciti", scrive Lina Merlin nella sua prefazione alle Lettere.
E ancora nel 1913, per esempio, in pieno Futurismo -"Noi vogliamo glorificare la guerra-sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna"-, il "Manifesto futurista della lussuria" di V.Saint Point proclamava:
"La lussuria è pei conquistatori un tributo che loro è dovuto. Dopo una battaglia nella quale sono morti degli uomini è normale che i vincitori, selezionati dalla guerra, giungano fino allo stupro, nel Paese conquistato, per ricreare la vita".
Come pecore, come maiali razziati dopo la vittoria, anche le donne fanno parte del bottino di guerra. Quando non deciderà di sgozzarle dopo averle violentate in tutti modi possibili, come in Algeria, giusto per restare all'attualità, il "conquistatore" è legittimato a marcare il territorio occupato mediante lo stupro etnico. Che è sempre esist ito. Fino alla barbarie della ex Iugoslavia, solo pochi mesi fa. Fino alle torture e agli stupri delle donne indigene in Messico, mentre sto scrivendo.
Ma che cosa differenzia, nella sostanza, uno stupro etnico dalla prostituzione pro-milizie? Una nascita?
Basterebbe leggere anche solo qualche testimonianza delle cosiddette "donne di conforto" di tutti i Paesi dilaniati dai diversi conflitti per rendersi conto che la radice dello stupro etnico e della prostituzione pro-milizie è la stessa: una feroce volontà di dominio. L'esercizio di un potere assoluto sulle donne.
Vern L. Bullough, autore di una delle poche storie della prostituzione in circolazione nelle biblioteche pubbliche, mette in rilievo come siano rari gli storici seri che accettano di approfondire quest'argomento.
Ciò, sottolinea Bullough, nonostante la prostituzione sia "un'istituzione sociale importantissima e strettamente legata alla condizione della donna, al diffondersi delle malattie veneree, all'andamento della natalità e a un vasto numero di problemi sociali, politici e culturali".
Già! Come spiegare le lunghe file di auto che soprattutto di notte percorrono a passo d'uomo i viali delle nostre città, che transitano sulle innumerevoli superstrade alla ricerca di una donna da "caricare". Come spiegare le case d'appuntamento più o meno clandestine, certi locali, la strepitosa serie di annunci sui giornali...
Ma soprattutto: come mettere in relazione questo con il '68; con le battaglie per il diritto d'aborto; con il Movimento del '77; con le lotte sindacali... Con il femminismo?
Di questa contraddizione - macroscopica contraddizione -, sulla quale gli storici di solito preferiscono glissare, il film di Carlo Mazzacurati, Vesna va veloce, è un'intensa e attualissima rappresentazione.
Per quale ragione Antonio [l'attore A. Albanese n.d.r.], il protagonista, che "in una prima stesura era addirittura un comunista molto arrabbiato nei confronti del cambiamento di questi anni nella sua area politica, che viveva da sconfitto ma con orgoglio, da isolato che non si arrende all'idea che l'egualitarismo non abbia più senso, che l'utopi a comunista non abbia più senso..." (Carlo Mazzacurati), sì, per quale ragione, mi domando, per stare con una donna, Antonio "è uno che deve pagare"?
"... deve pagare, in quanto fuori da un circuito generazionale e sociale eccetera", dice Mazzacurati.
Eh già!
È per questo che anche molti "compagni" comprano il corpo di una donna? per questo la pagano? perché sono "fuori da un circuito generazionale e sociale eccetera"?
"Vesna ha una dignità superiore - come essere umano e come atteggiamento nei confronti della volgarità che attraversa - a quella del protagonista maschile e di tutti gli altri personaggi", afferma ancora Mazzacurati.
E gli va dato atto che ha almeno la lucidità di ammettere che "è chiaramente un punto di vista maschile".
Perché si tratta del solito punto di vista maschile.
Che apre una porta - Mazzacurati con grande maestria cinematografica - senza però entrare. Senza affondare il coltello nella piaga.
Che rimuove, in sostanza.
Il Comitato etico Donna in lotta contro la prostituzione "si ripromette di ridefinire giuridicamente la prostituzione come stupro a pagamento e intende presentare una proposta di legge che, vietando la prostituzione, definisca il cliente reo nella stessa misura dello stupratore".
Non mi interessa, francamente non mi interessa porre questa questione su un piano giuridico. Però l'idea che la prostituzione possa essere considerata uno "stupro a pagamento" mi fa riflettere.
In definitiva, cos'è che il cliente compra da una prostituta?
Compra un diritto? compra un diritto unilaterale al piacere?
"I soldi ce li hai tu e perciò sei tu che compri ma il piacere ce l'avrai solo tu... ", dice Manila al suo cliente. (Dacia Maraini, Dialogo di una prostituta col suo cliente)
La prostituta non sceglie il suo cliente. Può rifiutarlo, eccezionalmente. Ma non lo sceglie. Esattamente come la donna stuprata.
La prostituta non prova piacere.
E neanche la donna stuprata ne prova. La prostituta non può seguire il suo desiderio. Mai.
Proprio come la donna stuprata, che è considerata un oggetto, la prostituta deve fare quello che ha patteggiato col cliente. Che la pagherà per questo.
L'unica differenza, dunque, sono i soldi.
"... Nei grandi centri lo sfruttamento è massimo: se una signorina guadagna, mettiamo 10 mila lire al giorno, deve dare 5 mila al padrone, 2500 per il vitto e l'alloggio; ma non le restano come crede 2500 lire: da queste deve detrarre le mance, la luce, il riscaldamento, il dottore, i supplementi ecc.. Cosa le resta? Poco o niente! Altro che aman ti, come vogliono sostenere i padroni!" (Lettera N. 21)
A cavallo del '900 Alfred Blaschko sosteneva che "è spettato al diciannovesimo secolo di trasformare la prostituzione in una gigantesca istituzione sociale". (Alfred Blaschko, Prostitution in the Nineteenth Century).
E le ragioni di questo secondo lui, ma non soltanto secondo lui, avrebbero dovuto essere ricercate nel "mercato competitivo", "nella crescita e congestione delle grandi città", nell'"instabilità del lavoro".
Aveva visto giusto.
"Nel nostro Paese, negli ultimi cinque anni, il numero complessivo delle prostitute è aumentato del 45%", hanno reso noto le donne greche che hanno partecipato alla due giorni di convegno delle Donne d'Europa per l'autonomia economica contro la disoccupazione e la precarietà, tenutosi a Milano il 30 e 31 maggio scorsi.
"Nel 1991 le prostitute greche erano il 70% contro il 30% di straniere; nel 1996 le proporzioni erano invece del 40 e del 60%. I prezzi delle prestazioni sono calati del 25%, mentre il reddito complessivo prodotto dalla prostituzione è cresciuto del 70% e la clientela del 60% (i dati sono tratti da uno studio dell'Università di Atene)".
"L'hai detto, occhio di serpente, la donna può solo decidere se prostituirsi in pubblico o in privato, per la strada o in casa, chiaro?", fa dire ancora a Manila la scrittrice Dacia Maraini.
"Tutte le donne sono in qualche modo prostitute. Ma siccome ero intelligente, preferivo essere una prostituta libera piuttosto che una moglie schiava", racconta Firdaus alla scrittrice e medica Nawal al Sa'dawi.
"Tutte le donne sono in qualche modo prostitute".
È stato proprio questo uno degli assunti su cui, nei primi anni Ottanta, alcune donne del Movimento femminista hanno discusso a lungo.
Erano gli anni del nascente "Comitato per i diritti civili delle prostitute" e del giornale Lucciola, cofondato da Carla Corso e Pia Covre.
E su questo le donne del Movimento si scontrarono, anche.
Se molte ritennero giusto schierarsi dalla parte delle prostitute sostenendone attivamente le battaglie, altre invece, pur solidarizzando, non se la sentirono di condividere la tesi che "è pertanto solo una questione di quantità, se essa [la donna n.d.r.] si vende a un solo uomo, dentro o fuori del matrimonio, oppure a più uomini". (Emma Goldman)
Il problema è complesso. Esiste una questione economica e continua ad esistere una questione sessuale.
Le due cose si sovrappongono in modi diversi.
C'è chi, come già Pia Covre e Carla Corso, sostiene che prostituirsi è un lavoro come un altro, che sesso e sessualità possono essere scissi.
C'è chi, invece, non crede affatto che questo sia possibile senza incorrere in gravissime conseguenze per il benessere psico-fisico della donna. Chi, proprio in virtù di quanto è accaduto in questi ultimi tre decenni, desidera e ricerca per sè una considerazione globale, che tenga conto di tutte le componenti della persona: corpo, mente, cuore.
Si tratta comunque sempre di livelli di discussione alti, quasi d'élite. Infatti, "il sommerso della prostituzione, le centinaia, le migliaia che fanno parte della prostituzione, dove davvero il pappa vive... è una multinazionale!" (Atti del convegno Sessualità: parliamo noi)
Ed è con questa realtà che dobbiamo confrontarci.
Nel 1948 Lina Merlin propose di chiudere le case di tolleranza in base a tre articoli dell'allora recentissimo dettato costituzionale: gli articoli 2, 32 e 41 [vedi riquadro].
Per quale ragione si dovrebbe oggi tornare indietro?
Lina Merlin fu deputata e senatrice del Partito Socialista, ma i principi ideali che la ispirarono non sono forse ancora oggi condivisibili nella sostanza, al di là delle divergenze ideologiche?
"... L'igiene pubblica è veramente un pretesto", scrisse inoltre Merlin facendo piazza pulita, una volta per tutte, delle false ragioni accampate dai benpensanti contro la chiusura delle case di tolleranza
- i "padroni" e lo Stato in queste imprese redditizie ci avevano infatti investito un bel pò di soldi.
"Quelle due visite settimanali, fatte nella casa stessa, senza mezzi adeguati o anche all'ambulatorio comunale per le tesserate non ospiti delle case, non sono meglio che niente, sono il nulla, o il peggio, poiché fingono di dare all'inesperto, o incauto cliente, una sicurezza che il medico serio non può dare [...]. D'altra parte, quale garanzia può offrire la donna ai clienti che si succedono a decine in una sola giornata?"
Eccolo lo spettro: il Contagio.
Per evitare il contagio bisognava e bisogna rinchiudere le prostitute. Controllarle.
"Una volta venuto alla luce tanto orrore perché mandare un messaggio di così grave impotenza alla nostra già disorientata pubblica opinione rimettendo puramente e semplicemente in libertà questa disgraziata vittima-killer [un'immigrata clandestina n.d.r.]?", si domanda il giornalista Guido Bolaffi su la Repubblica dell'8 aprile scorso.
Certo è più facile fare come si è sempre fatto. È più facile puntare il dito sulla prostituta. È lei che deve essere punita, rinchiusa, rimandata al suo Paese d'origine.
Peccato però che questa "disgraziata vittima-killer" abbia avuto dei clienti proprio nel nostro di Paese. Perché credo che anche Guido Bolaffi, una volta ripresosi dallo shock della scoperta dell'esistenza di "tanto orrore", sarà senz'altro d'accordo che questi uomini - italiani - non sono stati violentati.
E forse anche Bolaffi, magari raccogliendo qualche notizia in più come sarebbe peraltro auspicabile da parte di uno che fa informazione, potrà venire a sapere che certe prestazioni a rischio - quelle senza il profilattico - sono sempre andate e vanno tuttora per la maggiore. È merce rara, che costa di più.
Ma il "brivido", si sa, ha il suo prezzo.
"... la difesa della salute pubblica va diversamente organizzata... [...] ... bisogna sviluppare il senso di responsabilità dei propri atti", scriveva la senatrice Merlin nel '55.
Vale ancora oggi, credo.
Ed è sconsolante, molto sconsolante, constatare che possiamo ripetere pari pari gli stessi ragionamenti che sono stati fatti mezzo secolo fa. Che Lina Merlin metteva in relazione con la profilassi antivenerea; che noi, 50 anni dopo, possiamo mettere in relazione con l'AIDS. Con la disinformazione e l'ignoranza che in entrambi i casi hanno circond ato e circondano, complice la Chiesa cattolica, un corretto approccio ai problemi.
La questione della prostituzione è molto complessa, si diceva, e i livelli di lettura e interpretazione del fenomeno molteplici.
Di una cosa, però, sono sicura. Che proprio perché "responsabile per la prostituzione è l'inferiorità economica e sociale della donna" (Emma Goldman), lo Stato non può in alcun modo entrarci.
Se non con il controllo e la repressione, come ha sempre fatto [a questo proposito basta leggersi, per esempio, il Testo Unico di P.S. sul meretricio del 18.06.1931, n. 773, e il conseguente Regolamento per l'esecuzione della legge pubblicato con R.D. 06.05.1940, n. 635 n.d.r.].
La soluzione, se soluzione potrà mai esserci, sta in noi.
Nella nostra capacità di parlarne apertamente. Di tornare a riflettere sulla sessualità in modo libero.
Sta nel nostro desiderio di conoscerci. E di ri-conoscerci, reciprocamente.
Sta nella voglia di riappropriarci dei nostri corpi. E del nostro piacere.
Sta in "un rovesciamento completo di tutti i valori accettati comunemente - specialmente quelli morali - unito all'abolizione della schiavitù salariata". (Emma Goldman)

MADIDO RESPIRO

oggi mi voglio dare alla recensione di questo bellissimo gruppo di alessandria (fin troppo sottovalutato) e il loro primo cd del 2005 "Come posso sognare" capolavoro di puro hardcore per chi ama gruppi come indigesti, raw power la crisi, album con una registrazione ben fatta e testi introspettivi con una voce tipica dei gruppi hardcore vecchia scuola. già dalla prima canzone "morte apparente" si capisce dove vogliono arrivare, ma è proprio quando arriva la title track che raggiungo l'apice del godimento. il cd si conclude con guerra e mi lascia con 15 minuti di hardcore fatto come si deve ma con l'amarezza dovuta al fatto che questi maledetti si son sciolti (dopo l'album "an eye on us" del 2006, figo ma con un unica pecca:è cantato in inglese). ad ogni modo voto 9 su 10.
potete trovare il cd scaricabile sul link qua sotto di punk4free.


MADIDO RESPIRO - COME POSSO SOGNARE

lunedì 30 maggio 2011

NO COMMENT

POWERVIOLENCE (CALIFORNIA)


DISCOGRAPHY

CROSSED OUT

POWERVIOLENCE (CALIFORNIA)


DISCOGRAPHY

QUATTRO STAGIONI

POWERVIOLENCE (GERMANIA)






QUATTRO STAGIONI

CAUSE FOR ALARM

HARDCORE (NEW YORK)


CAUSE FOR ALARM

Antispecisti di destra?

di Luca Carli e Adriano Fragaro
La destra, i neonazisti, ecc. possono essere antispecisti? I due antispecisti firmatari di questo intervento sostengono di no. E spiegano perché.

Come tutti i movimenti nella prima fase della loro esistenza, anche il movimento antispecista si dibatte alla ricerca una sua precisa identità.
Certamente nasce come movimento animalista e tale rimane ma, nello stesso tempo, va oltre gli angusti limiti dell’animalismo classico o della zoofilia, in quanto ritiene che lo sfruttamento degli Animali non sia riconducibile a un atteggiamento dovuto solamente a comportamenti sociali più o meno diffusi, bensì una questione di sistema, cioè di un’organizzazione strutturata che genera ed è a sua volta sostenuta dall’ideologia del dominio.
Questa mancanza di una precisa identità sfocia inevitabilmente in una serie di problematiche identitarie, tanto “interne” (vi è una certa confusione tra coloro che – almeno a parole – si professano antispecisti) che “esterne” (ossia di come il movimento viene percepito dalla società).
Alla mancanza di unità nelle iniziative concrete (quindi di natura strategica e tattica), viene così ad affiancarsi anche un isolamento culturale, sociale e politico dovuto anche alla difficoltà di dialogare proficuamente persino con altri soggetti potenzialmente portatori di rivendicazioni in parte sovrapponibili.
Come se ciò non fosse già fonte di sufficienti preoccupazioni, in questo periodo si deve aggiungere un crescente interesse nei confronti della questione animale proveniente da alcuni ambienti della destra (più o meno estrema) che comporta il rischio di un’ulteriore frattura con gli altri movimenti antisistemici.
Il silenzio della sinistra Mentre ci si sta abituando all’assordante silenzio che proviene dal centro-sinistra, cui si accompagna il superficiale disinteresse di troppi gruppi anarchici, della sinistra extraparlamentare o, più in generale, antisistemici, ci si deve oggi anche confrontare, da un lato, con un certo attivismo a favore degli Animali da parte di alcuni membri del governo, dall’altro con la nascita di gruppi neofascisti che abbinano al tradizionale messaggio ambientalista (derivante dal classico concetto di “sangue e suolo”) delle istanze più prettamente animaliste.
Il gruppo parlamentare di Futuro e Libertà, per esempio, ha dedicato l’intero numero 4 della sua rivista bimestrale “Charta Minuta” alla questione animale. Il leit motiv della trasversalità della battaglia animalista appare evidente fin dalle prime pagine: nel suo editoriale di introduzione alla suddetta monografia intitolata “Dalla parte degli animali”, Adolfo Urso infatti scrive che è necessario sfatare il «luogo comune secondo il quale la protezione e la tutela degli animali siano appannaggio della sinistra … Non esistono temi di destra o di sinistra ma soluzioni e proposte che si adeguano nello spazio e nel tempo e che danno risposte alle esigenze che maturano» (1).
Lo scopo? Quello di indurre gli ingenui lettori a considerare la questione animale come un problema apolitico, salvo poi sottolineare la grande attenzione che la destra dimostra al riguardo al fine di attirarne le simpatie (e quindi i consensi ed infine i voti).
Ancora più a destra di Futuro e Libertà si sono formati gruppi neofascisti che abbinano a un messaggio anticapitalista rivendicazioni contro lo sfruttamento animale e di propaganda del veganismo, spingendosi sino a definirsi antispecisti , o come dicono loro “antispe”.
Una lettura superficiale di questo fenomeno da parte di alcune realtà del movimento animalista potrebbe portare alla conclusione che in ciò non solo non vi sia nulla di male, ma che tanto maggiore sarà la trasversalità della causa animalista, tanto maggiore sarà la forza che il movimento riuscirà a esprimere a favore degli Animali.
In realtà, il discorso è più complicato e coinvolge anche il movimento antispecista che deve interrogarsi su come è possibile che gruppi ideologicamente legati a idee conservatrici, o addirittura fasciste o neonaziste possano dichiararsi antispecisti. O meglio: questo loro definirsi antispecisti è concettualmente possibile oppure no?
Articolare una risposta a tali interrogativi risulta complesso, non tanto per la risposta in sé che è senza alcuna ombra di dubbio “no, non può esistere un antispecismo di destra”, ma perché per giungere a tale conclusione si deve andare oltre la superficiale interpretazione che spesso si dà al concetto di antispecismo che porta a far sì che le giustificazioni spesso addotte siano perlomeno discutibili.
Per Singer infatti «Lo specismo … è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie» (2). Singer dimostra come ogni argomento morale (la razionalità, il linguaggio, l’essere agenti morali, l’autocoscienza, l’anima ecc.) introdotto per giustificare il diverso trattamento che riserviamo agli Animali può, alla fine, essere ricondotto alla mera appartenenza alla specie umana; il ricorso al caso degli esseri umani marginali e la denuncia di un doppio standard morale (uno valido per gli Umani e uno per gli Animali) lancia una vera sfida al pensiero filosofico classico.
Tale provocazione è stata accettata da alcuni i quali hanno risposto che agli esseri umani marginali è dovuto pieno rispetto morale perché essi sono Umani, membri cioè della nostra specie. Incalzati sul perché l’appartenenza di specie sia un fatto moralmente rilevante, l’incapacità di fornire una risposta costituisce per loro alcuna preoccupazione. È questo lo specismo come lo abbiamo appreso da Singer. È senza dubbio da tale riflessione che si è incominciato a parlare di specismo. Partendo da tale prospettiva, il lavoro di Singer si limita a (ri)elaborare una teoria etica che arriva a includere alcuni degli animali non umani nella cerchia dei soggetti ai quali è dovuta considerazione morale; egli non elabora alcun nuovo “valore” ma denuncia la contraddizione che caratterizza la nostra società quando si rifiuta di estendere i suoi valori agli animali non umani.
Antispecismo razzismo, sessismo Simili sono le conseguenze a cui giunge anche il filosofo americano Tom Regan; pur criticando le tesi di Singer, egli formula una teoria dei diritti morali che postula un semplice allargamento, nel suo caso, dei soggetti di diritto. Nessuno dei due mette in discussione la struttura della società occidentale attuale; è questo il vero limite principale del loro lavoro. Le loro riflessioni sono limitate nel tempo e nello spazio in quanto, oltre ad accettare le premesse della metafisica occidentale, non mettono mai in discussione la struttura sociale, economica e politica attuale. La proposta avanzata, sia dal punto di vista teorico che pratico, non rappresenta una seria critica alla società umana moderna.
Del rapporto valori/società, rapporto necessariamente biunivoco, essi considerano solo un aspetto come se la società umana non fosse altro che il prodotto dei valori che rappresenta (3). Ed è sempre all’interno di questo orizzonte che Singer, dopo aver definito lo specismo, ne afferma l’analogia (4) con altre forme di discriminazione interspecifiche quali il razzismo e il sessismo. Singer non spiega quale tipo di rapporto intercorra tra specismo, razzismo e sessismo; l’unica affinità riscontrabile è che sia per il per il razzismo e per il sessismo, come per lo specismo, due individui che altrimenti non differiscono per aspetti moralmente rilevanti possono essere trattati in modo differenziato a causa della loro razza, del loro sesso o della loro specie. È da questo punto di vista che le prospettive sono analoghe.
Qui si ferma l’analisi di Singer (5) e qui, purtroppo, si è fermata anche la riflessione di molti attivisti animalisti.
In realtà se l’antispecismo si limitasse a denunciare la discriminazione arbitraria che subiscono gli Animali a causa della loro appartenenza a una specie diversa da quella umana, ossia una discriminazione basata unicamente su motivi biologici, ciò non basterebbe, ad esempio, a escludere la possibilità di un antispecismo di destra. Si potrebbe essere antispecisti di destra (ossia razzisti e sessisti) senza cadere in contraddizione con la definizione sopra riportata.
Ciò che manca, infatti, è ancora un passaggio costituito dall’analisi della seconda parte della corrispondenza biunivoca sopra citata tra valori e società. In altre parole: lo specismo non è solo un’idea, qualcosa di teorico, ma è anche una prassi. Per comprendere come questa prassi sia nata e si sia evoluta è pertanto necessario compiere una ricerca storica al fine di capire quali sono le reali condizioni in cui questa discriminazione si è sviluppata, ossia come realmente la forma assunta dalla nostra struttura sociale ha influenzato il pensiero specista.
Le intuizioni di Singer e Regan necessitano quindi di dover passare dal mondo delle idee a quello reale e fare questo ci consente di capire quali sono tutte quelle barriere il cui abbattimento costituisce la conditio sine qua non affinché tale trasposizione possa avvenire.
Alcuni ritengono che tale passaggio sia qualcosa di indebito, di strumentale; l’accusa mossa è quella di utilizzare la lotta antispecista per “fini politici” finendo così per mettere in secondo piano l’importanza della questione animale.
Differenze fittizie e irrilevanti È doveroso ammettere, in effetti, che questo pericolo esiste, ma non per questo tale analisi deve essere elusa, pena l’incapacità di comprendere appieno il fenomeno di cui stiamo parlando: non è pertanto qualcosa di indebito, bensì di necessario. E che non sia una forzatura lo si può vedere, ad esempio, facendo un confronto con il razzismo.
Il razzismo altro non è che «la convinzione preconcetta che la specie umana sia suddivisa in razze biologicamente distinte e caratterizzate da diversi tratti somatici e diverse capacità intellettive, e la conseguente idea che sia possibile determinare una gerarchia di valore secondo cui una particolare razza possa essere definita “superiore” o “inferiore” a un’altra» (6).
Questa breve descrizione ci dimostra quanto siano impressionanti le analogie (storico-culturali) tra razzismo e specismo: entrambi sono forme discriminatorie basate su differenze fittizie e irrilevanti (prima biologiche, poi via via declinate in modo più raffinato) volte a preservare determinati vantaggi da parte di chi li professa che hanno una matrice culturale giustificazionista di una prassi di sistematico sfruttamento di chi viene considerato gerarchicamente “inferiore”.
Risulta chiaro che è unicamente dallo studio della storia che si può apprendere come quelle analogie teorizzate da Singer solo a livello culturale si sono manifestate nella realtà, diventando cioè prassi funzionale al funzionamento della società.
Ma l’antispecismo va oltre l’antirazzismo. Va oltre non tanto perché rappresenta un concetto più generale, o perché per la prima volta il soggetto che libera non coincide con il soggetto liberato (7), ma perché ci “costringe” a interrogarci sull’origine di ogni forma di discriminazione, analisi che riguarda sia l’aspetto culturale che quello storico, di prassi, ossia di come effettivamente si sono sviluppate le prime società organizzate in senso gerarchico. Infine, va oltre perché introduce l’Animale nella nostra riflessione. E questo è fondamentale almeno per due ordini di motivi.
Innanzitutto perché i concetti di Umano e Animale sono indissociabili in quanto si circoscrivono e si definiscono reciprocamente, perché nonostante gli immani sforzi fatti dalla nostra specie per affrancarsi dalle proprie origini, siamo e rimaniamo Animali.
In secondo luogo perché studiando come sia avvenuta storicamente la scissione ontologica Umano-Animale, si scopre come essa sia il risultato di un processo che è durato millenni; l’Uomo, infatti, non si è percepito da sempre come superiore agli altri Animali (o, per lo meno, non più di quanto non lo si sentisse nei confronti degli altri esseri umani non appartenenti alla propria tribù). È solo con il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, unitamente ad altri aspetti di carattere spirituale-religioso, che si sono formate le prime società organizzate. È per esercitare il proprio dominio sulla terra che alcuni uomini hanno iniziato a schiavizzare altri Umani e alcuni Animali.
Lo sfruttamento della natura, degli Animali e di alcuni Umani è un qualcosa che non può essere né separato né suddiviso in ordine temporale, intrecciandosi invece in una sorta di circolo vizioso.
Schiavismo, sfruttamento dei popoli e delle specie, genocidi, denigrazione delle donne, si reggono tutti sulla stessa idea folle di dominio. Un desiderio di dominio che viene però, di epoca in epoca, mascherato e giustificato sul piano morale e culturale attraverso l’elaborazione di un’ideologia che varia a seconda dei bisogni e delle inquietudini delle masse del momento.
Ciò ci può spingere a considerare che il cammino dell’Uomo sia costellato di episodi che lo hanno portato a divenire il tiranno che tutti conosciamo e che il rapporto di forza tra la nostra specie e le altre è variato nel tempo a tutto vantaggio della prima anche e soprattutto grazie alle scoperte tecnologiche e scientifiche che hanno – unitamente alla religione – contribuito all’elevazione dell’Umano oltre la soglia della naturalità.
È onesto ammettere che ciò che siamo deriva da una parte di noi, del nostro complesso essere, e che scienza, tecnologia e religione hanno funzionato da amplificatore causando l’immensa espansione del nostro ego che tutto ha sovrastato. Per contro è del tutto evidente che non siamo “solo” questo, ma molto altro e, conseguentemente, possiamo realmente ripensarci e reinventarci, ripensando e reinventando anche la nostra società.
L’antispecismo non è solo una rivendicazione di estensione della considerazione morale o dei diritti a un numero maggiore di soggetti quanto una forma reale di liberazione da ogni tipo di dominio. Senza rivedere le basi stessi del nostro vivere in comune, della nostra organizzazione sociale ed economica, questo non potrà mai accadere. È la struttura stessa della società basata sulla discriminazione, sullo sfruttamento economico, sul ruolo repressivo e di controllo dello stato che deve essere messa in discussione.
L’antispecismo nasce come un movimento cui fine è la liberazione animale. Affinché tale obiettivo possa essere raggiunto è necessario abbattere quelle barriere culturali e materiali che impediscono ai principi di eguaglianza, equità e rispetto, di cui è portatore, di potersi liberamente diffondere. Ma poiché queste barriere sono le stesse che consentono a tutt’oggi il perpetuarsi dello sfruttamento dell’Umano sull’Umano, ecco che la loro distruzione consentirà, assieme alla liberazione degli Animali, anche quella reale degli Umani.
Tentativi di sdoganamento È per questo che liberazione animale e liberazione umana coincidono, è per questo che lo slogan più citato dagli antispecisti è “Animal liberation, Human liberation”.
A chi gli chiedeva quali potevano essere oggi le differenze tra destra e sinistra, Marcello Veneziani rispose: «Diciamo subito che in effetti si sono confuse destra e sinistra, negli ultimi tempi. Però, a voler essere più precisi, quello che distingue oggi la destra dalla sinistra è che la destra crede molto alle radici, ai valori di un radicamento, mentre la sinistra crede molto ai valori di liberazione, di emancipazione. Credo che questo sia lo spartiacque» (8).
Non possiamo che concordare proprio per il semplice fatto che l’antispecismo è portatore di istanze di liberazione ed emancipazione dalla società del dominio (su Umani ed Animali) in cui viviamo e come tale rappresenta certamente una volontà di discontinuità con il passato e con lo status quo. Per contro, la destra e il fascismo sono chiaramente espressione di tutela della continuità e della tradizione, tutela quale risultato da perseguire soprattutto attraverso l’opposizione alle libertà individuali e collettive. È anche per questo che non può esistere in alcun modo un antispecismo di destra: si tratterebbe di un ossimoro.
Eppure i tentativi di sdoganamento di una destra animalista e persino antispecista ci sono e sono sempre più numerosi. Tutto avviene subdolamente e mediante una cortina fumogena che avvolge e confonde le idee, una sorta di foschia che appiattisce e livella non permettendo più chiare identificazioni, ma causando un’incredibile e assurda commistione di idee, principi e intenti. In un’epoca in cui la destra onora figure come quella di Che Guevara, le sue frange “animaliste” dedicano fotografie e spazi in memoria di Barry Horne (9) spingendosi ad adottare, a volte, anche la stessa simbologia: le due bandiere sovrapposte, una verde e l’altra nera che, seppur con alcune modifiche, ricalcano i simboli dell’azione antispecista di matrice anarchica.
Se a tutto questo si aggiunge poi anche l’altro punto di contatto costituito dall’azione anticapitalista che pare essere speculare e sicuramente condivisa sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra, risulta inevitabilmente facile confondere i messaggi ricorrendo al consueto gioco dell’apoliticità che sempre più si è consolidato sin dalla caduta delle contrapposizioni ideologiche del Novecento. Dietro a tale presunta apoliticità si cela, in realtà, la subdola volontà di non enunciare principi chiarificatori utili a permettere di distinguere e di individuare tendenze autoritarie, xenofobe, razziste e fasciste.
L’apoliticità e la trasversalità usata come sinonimo di universalità del messaggio animalista vengono sfruttate quindi per rimuovere ogni critica e ogni opposizione nei confronti di gruppi o fazioni di matrice autoritaria. È indubbio che in ambito animalista vi sia una certa ignoranza che, mista a disinformazione e disillusione, impedisce una corretta valutazione delle diverse realtà animaliste presenti sul territorio.
Il concetto che qualsiasi cosa è utile per salvare gli Animali ha causato più danni che altro: in nome dell’azione subito e ora, priva di una necessaria elaborazione teorica, senza una strategia e soprattutto senza una chiara finalità condivisa, tale concetto ha causato la formazione una generazione di attivisti del tutto sprovvisti di strumenti analitici e di conoscenze critiche, tanto che al giorno d’oggi dichiararsi apolitici pare essere un titolo di merito, una dichiarazione di estraneità nei confronti di tutto ciò che è marcio e corrotto, una sorta di nuova verginità. La realtà è ben più amara, perché quasi sempre si confonde politica con partitismo mentre si dimentica – o addirittura si ignora – che l’attività politica è il fondamento di ogni attivista che intenda davvero influenzare la società per innescarne il cambiamento. Cos’è possibile fare per scongiurare questa devianza?
Urge chiaramente la diffusione di una nuova consapevolezza, della definizione di principi e di modelli che possano aiutare attivisti, gruppi e associazioni a intraprendere un cammino comune – pur con distinguo e differenze – realmente rivoluzionario. La colpevole mancanza di elaborazione teorica e l’adozione acritica e inconsapevole della sola prassi vegana, ha creato la situazione che stiamo vivendo. Ciò che non possiamo permettere è che il messaggio libertario e radicale dell’antispecismo possa essere annichilito e assorbito da rinate forze autoritarie, evitando nel contempo di svendere l’autonomia antispecista così faticosamente guadagnata

Quella riga di nulla

di Maria Matteo
Di fronte alla questione profughi/immigrati/ecc. questo governo non ha che una ricetta: gabbie, poliziotti, deportazioni.

Nelle trame dei labirinti che intrecciano i tentativi di cogliere gli snodi cruciali di questo primo decennio del secolo è raro trovare un incrocio dove tante strade convergono. Lampedusa è uno di questi. Un posto dove la fisicità del male ci investe direttamente, senza troppo spazio per gli artifizi della retorica e per le mediazioni sottili della ragione che calcola e divide.
Sono scene di una «Apocalypse now» mediterranea. A mezzogiorno del terzo giorno di primavera si accalcano sul molo della stazione marittima almeno mille tunisini. Nel piccolo promontorio di pietra dolomitica piantato alle loro spalle sventolano i resti delle tende di cenci e cellophane dove si sono rifugiati per trascorrere la notte. Qualche chilometro più al largo, ben visibile dalla costa, troneggia la nave San Marco: un enorme elicottero a poppa e altri tre attaccati l’uno all’altro nella zona di prua grande quanto un campo di calcio.
Nel frattempo una motovedetta della Guardia costiera scarica proprio ai piedi dei mille migranti altri 82 tunisini appena sbarcati, il boato di tre caccia dell’aeronautica militare in volo verso la Libia squarcia l’aria. Lampedusa è in guerra, l’Italia è in guerra.
” Così scriveva Mariano Laugeri sul “Sole24 ore” del 24 marzo.
Lampedusa è l’emblema della frontiera, una riga di nulla su una carta tutta azzurra di mare, una riga di nulla che separa i sommersi dai salvati.
Una riga di nulla dove si ammassano migliaia di corpi, come in un teatro, dove l’odore della paura è più forte di quello di chi trascorre le notti a terra, senza nulla.
Chi vive sulla frontiera vive di paura, la paura del vicino, povero, giovane a caccia di un futuro da acchiappare al volo. Le stesse mani che si sono tante volte allungate per accogliere profughi stremati si sono strette a pugno per respingere.
Un’immensa fossa comune Poteva andare diversamente. Ma questo governo – chi sta all’opposizione non si colloca poi tanto lontano – non ha che una ricetta: gabbie, poliziotti, deportazioni. E una tentazione: abbandonare quello scomodo scoglio in mezzo al canale di Sicilia, farne una prigione a cielo aperto. Solo la marea che sale obbliga il ministro leghista a decidere di toccare quei corpi, che raccontano alla vecchia Europa la rivolta che ha scosso la sponda sud del mediterraneo, che testimoniano la fine di regimi deprecati ma sostenuti, finanziati, coccolati dai governi della sponda nord.
Sono i giovani tunisini che hanno cacciato Ben Alì, che hanno assaporato il gusto aspro e seducente della libertà e colgono l’occasione che si è aperta. Sulla strada del mare ci sono meno guardiani: partire è l’avventura desiderata e temuta. L’avventura di fratelli ed amici, un’avventura che spesso ha inghiottito le vite di tanti ragazzi. Il Mare Nostrum è un’immensa fossa comune, un sudario che ne avvolge le speranze. I giornalisti a caccia di informazioni da addomesticare non scatteranno mai una foto con didascalia di una fetta qualsiasi di quest’azzurro, muto testimone della ferocia delle civili, democratiche, sponde nord.
Per un breve momento i tunisini che arrivavano sono stati considerati profughi e convogliati nei CARA, i centri per richiedenti asilo. Solo quelli che non avevano l’accortezza di fare domanda di accoglienza finivano nei CIE, le prigioni per immigrati senza carte. Ma è durata poco: il moltiplicarsi degli sbarchi ha indotto il governo a fare chiarezza: i tunisini sono clandestini, solo i libici possono essere considerati profughi. Naturalmente di libici non ne sono arrivati.
Le uniche barche partite dalla Libia trasportavano somali, eritrei, sudanesi. I primi dopo due anni. I primi dopo gli accordi criminali tra l’Italia e la Libia per i respingimenti in mare. Gente in fuga da guerre e persecuzioni, che cercava asilo nel nostro paese, ma è stata rimandata verso l’inferno. Il governo di Tripoli faceva il lavoro sporco per conto del governo di Roma. Un servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak.
La Lega Nord stampò un manifesto con l’immagine di un barcone pieno di gente e la scritta “abbiamo fermato l’invasione”. I diritti umani, sui quali tante volte si sono tracciati discrimini di civiltà, diventano carta straccia quando fa comodo. Alla faccia delle convenzioni internazionali, alla faccia delle deboli proteste dell’ANHCR, l’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati.
L’ennesima partita di civiltà tra le bombe democratiche e il satrapo mediorientale di turno, ha il sapore amaro della beffa. Berlusconi e Gheddafi – come Sarkozy, Obama, Merkel, Cameron – declinano i diritti umani alla stessa maniera. Gheddafi adesso è un criminale. Eppure è lo stesso uomo che hanno baciato ed accolto, lo stesso che il governo italiano pagava per tenere serrate le porte ai disperati d’Africa.
Oggi questi stessi disperati, probabilmente sfuggiti alle galere libiche nel marasma della guerra civile che scuote il paese, si riaffacciano a Lampedusa. E al governo tocca fare buon viso a cattivo gioco ed accoglierli, in attesa che i nuovi governanti libici possano mantenere la promessa di rispettare gli accordi stipulati con l’Italia da Gheddafi.
Due anni fa l’immagine di un uomo adulto in ginocchio su un barcone aggrappato alle mani in guanti di plastica di un finanziere non spezzò l’omertà dei più verso i respingimenti in mare.
Oggi sui quotidiani appare la foto della puerpera etiope e del marito eritreo dopo il parto in mare del loro bambino. Di loro non si dice nulla, perché la loro storia a cavallo di una guerra lontana, è bene che non si sappia. Bastano le foto per far sentire tutti buoni, a posto con la coscienza.
Gli italiani, si sa, sono brava gente, mammoni con la lacrima facile facile. Ed un discreto senso degli affari. Quando gli sbarchi dalla Tunisia sono arrivati a mille al giorno, Maroni e Frattini, sono volati a Tunisi con un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. Nel pacchetto ci sarebbe anche la promessa di 2000 dollari ai tunisini che accetteranno di tornare indietro spontaneamente.
In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia e a facilitare le operazioni di rimpatrio. Un pacchetto del tutto simile a quello offerto ed accettato a suo tempo dalla Libia.
Memoria e vergogna Quando leggerete queste righe saprete se la Tunisia è stata capace di mantenere gli impegni sottoscritti ed incassare il premio promesso. Sinora nulla si è mosso.
Per metterci una toppa, la premiata ditta del filo spinato sta aprendo 13 nuovi CIE temporanei in strutture abbandonate dell’esercito. La prima tendopoli è stata aperta nell’ex aeroporto militare di Manduria. Le altre le stanno preparando, riaprendo caserme fatiscenti ed aree militari abbandonate da decenni.
Ma che importa. Quel che conta è spegnere la paura, suscitata ed alimentata da anni di propaganda razzista: quel che conta è erigere muri. La linea di frontiera è diventata mobile, attraversa tutta la penisola, con centinaia di metri di filo spinato e uomini in armi.
Nel caos chi può salta le recinzioni e si rimette in viaggio. Verso le città del nord, verso la Francia.
Pochi lo dicono ma i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati oltre 24.000 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE – da due mesi in rivolta (1) – o nei CARA o nell’ex residenza dei militari statunitensi di Mineo, riattata a CIE/CARA. Alcune migliaia sono stati trasferiti nelle tendopoli.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte. Padroni e padroncini ringraziano in silenzio per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.
Siamo in guerra. Ormai a Lampedusa come in ogni dove d’Italia il confine tra guerra interna e guerra esterna è divenuto impalpabile. Si è frantumato nelle galere libiche, tra le acque del Mediterraneo, nelle campagne di Rosarno, nelle periferie delle metropoli, dietro il filo spinato delle tendopoli.
Per fermarla non basterà la testimonianza, non sarà sufficiente l’indignazione, occorrerà mettersi in mezzo, praticando una solidarietà concreta con chi incappa nelle reti dei cacciatori d’uomini. Servono robuste cesoie. Simboliche e reali. Per spezzare il filo spinato e per rompere il muro d’odio e paura che ci sta schiacciando.
Ci servono memoria e vergogna. Una memoria che non c’è, la memoria del passato coloniale dell’Italia, la memoria di una conquista criminale, di una repressione feroce, di un razzismo mai sopito. Senza memoria e senza vergogna non fermeremo la guerra. Quella interna, contro rifugiati e migranti, come quella per la Libia.
Non è facile. Eppure non si può non sentirne l’urgenza. L’urgenza di cancellare quella riga di nulla nell’azzurro tutto uguale della carta.



CITIZEN FISH


If animals are animals
And animals have brains
We are no more than cannibals
Who refuse to feel the pain

The meat you eat is wrapped up neat
You didn't see it bleed...
And what you kill does not fulfil
Your dietary needs

Take a look from this direction
And save yourself the indigestion
Our guts are geared to vegetation
And it's healthier as well

Open your eyes and face the facts
Meat cost a lot, it gives you heart attacks
A now lot of people think (wrongly) vegetation lacks
In vitamin B12... vitamin B12...
If you really think that's gonna make you ill
Then buy a bottle of vitamin pills!

You could be more healthy
Maybe it doesn't really bother you
But can your conscience bear the strain
Of all the pain that makes your food?

You could feed a lot of needy people
With the grain they feed to cows
But can you comprehend these end results
Or can you not allow
Yourself to break the old tradition?
False conception of nutrition

Well they all eat meat on the television
Except those little starving children
Would you ever eat the meat
From another human being?
Flesh and blood
Is animal
Is you and me
Animal is suffering

LIBERTY

ANARCHO-PUNK (UK)



THE PEOPLE WHO CARE ARE ANGRY

EDGE (the movie)


DOWNLOAD PARTS

SCHIFOSI

CRUST (AUSTRALIA)


ABSENTIUM EXISTENCE (EP)
HALF LIT WORLD
III WINDS FROM OUTOPIA
SCHIFOSI 7"
SPLIT + SLACKJAW

THIS IS THE ALF (compilation)


CONFLICT, FLUX OF PINK INDIANS, CRASS, CHUMBAWAMBA, SUBHUMANS, DIRT, EXITSTANCE, ICONS OF FILTH, POISON GIRLS, LIBERTY, CITIZEN FISH, LOST CHERREES

v/a this is the alf

Il lato oscuro dell’antropocentrismo

a cura di Filippo Trasatti

Una chiacchierata con Massimo Filippi che da anni si occupa della “questione animale” da un punto di vista filosofico e politico.

Filippo TrasattiCome si diventa vegani, animalisti, antispecisti? Tolstoj nel Primo gradino racconta che un elemento importante per il suo radicale mutamento del punto di vista sugli animali è stata la lettura del testo di Howard Williams Ethics of Diet che è un classico del vegetarianesimo, un’antologia di testi che spaziano dall’antica Grecia fino alla metà dell’Ottocento. Ma poi, subito dopo, parla anche dei macelli, racconta incontri diretti con la sofferenza animale. È insomma come se volesse dire che da sole le ragioni e i ragionamenti non bastano, che ci vuole anche un’esperienza diretta, una sorta di sintonizzazione della propria sensibilità che ci avvicini all’animale. Anche a me è capitato così: da una parte il libro di Singer Liberazione animale ha fornito ragioni abbondanti contro lo specismo e lo sfruttamento animale, ma dall’altra la convivenza con degli animali, un cane (Angelino) e un coniglio (Pippo), mi ha insegnato una quantità di altre cose che hanno a che fare con la sensibilità, lo sguardo e le emozioni degli e verso gli altri animali. Vorrei sapere qual è stato il tuo percorso di avvicinamento alla “questione animale”.
Massimo Filippi – Molto simile al tuo, un misto di considerazioni razionali e affettive. Credo, infatti, che una parte importante del mio percorso sia stata influenzata dal paradigma darwiniano, secondo cui differiamo dagli animali per grado e non per genere: la differenza tra le “nostre” e le “loro” caratteristiche è quantitativa (noi, forse, pensiamo più di un ghepardo, ma corriamo meno veloci) e non qualitativa. Paradigma darwiniano arricchito dai dati recenti delle neuroscienze che ogni giorno lo riconfermano: gli animali non solo vivono, soffrono, gioiscono e muoiono come noi, ma usano le medesime strutture neurali per apprendere, insegnare, costruirsi una cultura e un galateo, per percepire il mondo, per muoversi in esso e per modificarlo. Da qui è nata l’attenzione e la critica al modo in cui l’uomo si è sempre autorappresentato in ambito filosofico e antropologico cioè come negazione dell’animale e l’insofferenza per tutta una serie di disconoscimenti dell’animale che, da Aristotele a Heidegger, hanno costituito lo sfondo del nostro essere-nel-mondo e delle nostre visioni del mondo – che, come sappiamo, hanno contribuito a portarci dove siamo, cioè sull’orlo di una catastrofe etica, sociale e ambientale.
Questo mi ha portato a considerare che il meccanismo dell’“esclusione gerarchizzante”, che caratterizza le varie dicotomie occidentali (uomo vs. donna, uomo civilizzato vs. uomo selvaggio, anima vs. corpo, mente vs. mondo, istinto vs. ragione, ecc.), trova una sorta di modello fondante nell’opposizione originaria (quanto artificiale) tra uomo e animale, la quale a sua volta non nasce nelle stanze dei filosofi, ma come teoria “giustificazionista” di una prassi volta al sistematico sfruttamento di chi occupa i gradini più bassi della scala degli esseri. Ma, ovviamente, tutto questo non è bastato a modificare il mio cosiddetto stile di vita, di cui è parte integrante la scelta non-violenta e vegana. A questo punto, servivano quelle che Pascal ha definito le «ragioni del cuore» e queste sono state l’incontro con un cane abbandonato a Ferragosto di molti anni fa (La Bobo, cane femmina con un nome fintamente maschile) e la visione di un servizio RAI sul trasporto di animali al mattatoio. In quel filmato, si vedeva una mucca sollevata con una gru a diversi metri di altezza e poi scaricata di colpo sul rimorchio di un camion: a quella scena io e mia moglie ci siamo guardati negli occhi con lo stesso pensiero e, senza bisogno di parlarci (forse non è il linguaggio a renderci umani), abbiamo smesso da quel giorno di mangiar carne. Solo dopo, a differenza di molti altri antispecisti ho letto Singer, Regan, Sapontzis, Rachels e gli altri filosofi, che hanno consolidato, con una messe di considerazioni morali e di dati materiali, quella che fino allora era stata una congerie di intuizioni più o meno nebulose. La somiglianza tra le nostre due esperienze non è casuale, ma piuttosto tipica della maggior parte delle persone che si definiscono “animaliste”.

L’industria dei media Mi sembra, non so cosa ne pensi tu, che gli animali siano anche troppo presenti nei media e nella cultura di massa, ma in un modo puramente consumistico, usati per vendere prodotti oppure buoni sentimenti e una finta mitica “natura incontaminata”, mentre viene del tutto rimosso lo sfruttamento istituzionale a cui sono sottoposti. Insomma, da una parte sembra che sia aumentata l’attenzione verso gli animali (per fare un solo esempio esistono ormai in diverse province assessorati ai diritti animali), dall’altra, però, non viene mai messo in questione lo sfruttamento strutturale degli animali e della natura (oltre che degli uomini) su cui il nostro sistema si basa.
Qui tocchi una serie di nodi complessi e che sarebbe importante discutere in dettaglio. Provo allora ad articolare una serie di suggestioni a partire dalla tua domanda. Hai perfettamente ragione quando affermi che gli animali sono ubiquitariamente presenti nelle nostre produzioni culturali, dalla letteratura ai cartoni animati, dall’arte, ai fumetti, dalla pubblicità, al linguaggio politico, ecc. Tutto questo non dovrebbe risultarci sorprendente. Il nostro cervello, infatti, si è evoluto per diversi milioni di anni, dovendo organizzarsi per individuare, ad esempio, possibili predatori. In questo contesto è lecito immaginarsi che gli animali abbiano costituito degli “stimoli” più significativi che non sassi, alberi o montagne. In aggiunta, gli animali sono gli unici esseri al mondo in grado di incrociare il nostro sguardo e di risponderci. In altre parole, il nostro cervello è animale non solo perché da quello degli altri animali si è evoluto, ma anche perché gli altri animali lo hanno modellato nel corso dell’intera evoluzione. La cosa, ovviamente, non è sfuggita all’industria dei media che ha utilizzato questa nostra predisposizione a “vedere” l’animale per facilitare l’acquisto e il consumo di qualsiasi prodotto. Credo, quindi, che questo ennesimo e ulteriore utilizzo dell’animale, abbia contribuito non poco a trasformarci tutti in consumatori, come ci insegna Günther Anders, il quale, tra l’altro, individua nel modello del “mangiare” (e per la nostra società “carne” è metonimia per “cibo”), l’archetipo del consumo odierno, cioè di quel consumo che interpone il più breve spazio possibile tra la produzione e la “rottamazione” del prodotto, al fine di sostenere la catena produttiva e riproduttiva del sistema capitalistico (il benessere è infatti misurato dal PIL e non dalla felicità o da un armonico “essere-nel-mondo”). Mi trovi perfettamente d’accordo anche quando sottolinei la paradossale situazione per cui lo sfruttamento istituzionalizzato dall’animale viene facilitato nascondendolo dietro una finta immagine di “natura incontaminata”: sono miriadi le pubblicità che ci mostrano tonni, mucche e maiali che saltano felici, con naturalezza, nelle scatolette di carne che troviamo ai supermercati. Qui vediamo in atto nella prassi quotidiana quella “esclusione gerarchizzante” a cui si accennava in precedenza: l’animale ridotto a “mera natura” diventa, da un lato, un oggetto immediatamente disponibile per il nostro uso e, dall’altro, un innocuo veicolo per messaggi tranquillizzanti, per nascondere la violenza istituzionalizzata che ogni giorno lo travolge (ma l’invisibilità, la trasformazione in routine, è la caratteristica centrale di ogni violenza istituzionalizzata che comincia, come afferma Adorno, quando pensiamo «è soltanto un animale»). Il tutto assume un aspetto ancor più fosco, quando consideriamo che il corpo idealizzato dell’animale diventa il veicolo per il consumo dei corpi reali di decine di miliardi (ogni anno) di esseri senzienti, direttamente (come cibo, vestiti, divertimento, ecc.) o indirettamente (come farmaci o come strumenti per testare l’eventuale tossicità per l’uomo di ogni possibile nuovo prodotto, dall’olio dei freni delle macchine ai giocattoli dei bambini).

Un altro nodo importante è quello del rapporto tra antispecismo ed ecologia. In che modo, secondo te, un approccio antispecista e animalista può cambiare l’attuale approccio ai problemi ecologici?
Schematizzando molto, si può affermare che “l’ecologia” è stata tradizionalmente declinata in due modi fondamentali che potremmo definire “superficiale” e “profondo”. L’ecologia superficiale è tutta contenuta nel paradigma antropocentrico: cerchiamo di preservare l’ambiente per vivere meglio noi e, possibilmente, i nostri figli. In questa versione, l’ecologia è semplicemente “teatrale”: tutto il non-umano è semplicemente “paesaggio”, sfondo su cui si staglia l’attore principale, cioè l’uomo. Essendo questa la corrente che ha maggiormente influenzato i vari “partiti verdi” non stupirà come questi non abbiano ottenuto alcun cambiamento della rotta della politica internazionale.
L’ecologia profonda, d’altronde, effettua un rovesciamento di prospettiva ma senza modificarne il paradigma di fondo: non sono le varie componenti del “sistema-natura” a contare, ma il benessere del sistema stesso. Il paesaggio diventa l’attore principale e gli attori (uomini, animali e piante) diventano sfondo: siamo ancora a teatro dopo un coupe de théâtre! Può allora succedere che, se si pensa che il benessere del sistema richieda l’abbattimento di 300 cervi o 5.000 cinghiali, la cosa non desta eccessive preoccupazioni morali. Insospettisce che nessun ecologo profondo abbia mai suggerito (per fortuna!) l’abbattimento di esseri umani che, notoriamente, costituiscono il problema principale del “sistema-natura”. Ho evocato questo paradosso, che va contro tutte le nostre intuizioni morali pre-riflessive, per indicare come anche l’ecologia profonda non esca, nonostante l’apparenza, dal paradigma antropocentrico. Non è allora un caso che ecologia (il discorso sulla casa, dell’uomo ovviamente) e economia (le regole della casa, dell’uomo ovviamente) raramente confliggano e facilmente si accordino.
L’antispecismo, con il suo accento sulla inviolabilità di tutti gli individui che possiedono le caratteristiche per essere considerati «soggetti di una vita» (per dirla con Regan), non ricorre né al mito della sacralità della sola vita umana né a quello della natura incontaminata. Miti che sembrano opporsi ma che nascono da una comune radice. L’antispecismo mette in scacco la visione antropocentrica del mondo che domina la nostra cultura aprendo la strada per una società veramente egualitaria. Altrove, ho definito l’antispecismo come “equologia profonda”.
Questa differenza di prospettiva si riflette poi nella prassi. Ad esempio, il progetto REACH della Comunità Europea, che prevede di testare sugli animali la tossicità di decine di migliaia di sostanze potenzialmente tossiche per l’uomo, ha visto ecologisti e antispecisti schierarsi su fronti diametralmente opposti. Ovviamente, ho semplificato ed esistono anche punti di contatto tra antispecismo ed ecologia: si vedano, ad esempio, molte delle intuizioni dell’ecologia sociale di Murray Bookchin.

La scoperta dell’antispecismo Cerchiamo di mettere meglio a fuoco il nesso tra l’antispecismo e l’anti-antropocentrismo che è uno dei centri della tua riflessione in questi anni.
L’antropocentrismo è in realtà, come ci insegna Derrida, «carnofallologocentrismo», cioè quella teoria giustificazionista di ogni sopruso che l’uomo maschio, bianco e adulto ha messo in atto, dagli albori della storia così come la conosciamo, nei confronti dell’Altro (donne, barbari, animali, bambini, schiavi, stranieri e natura). La “scoperta” dell’antispecismo, conformandosi in questo con la riflessione di Horkheimer e Adorno, è stata capire che il paradigma dell’antitesi “noi/loro” risiede proprio nell’antitesi uomo-animale, che i francofortesi declinano come «sfondo inalienabile dell’antropologia occidentale».
L’inclusione dell’animale nella sfera della considerazione morale non ha, quindi, solo risvolti “zoo-pratici” (nella richiesta della cessazione della violenza istituzionalizzata nei loro confronti), ma anche “antropo-pratici” (nel rifiuto di ogni dottrina di discriminazione intraumana) e, più in generale, teorici nella ridefinizione dell’antropologia filosofica come discorso intorno all’uomo e non, sempre e ancora una volta, come discorso dell’uomo. Anders intendeva questo quando reclamava la necessità di fare non solo una «filosofia dell’uomo», ma anche del «moscerino» e del «bambino». E che questa serie di problemi sia rilevante è mostrato dal fatto che le campagne di eliminazione del diverso sono sempre partite con un’operazione “linguistica”, prima che fattuale, di riduzione dell’Altro ad animale.
Che questo tipo di operazione “linguistica” sia poi esercitata anche dalla sinistra è sia tragico che ridicolo visto che, ribadendo l’antitesi uomo/animale, essa di fatto contraddice i suoi stessi principi ispiratori: si pensi, solo per fare due esempi recenti, alla «demoratizzazione» della scuola proposta dai COBAS qualche mese fa o all’equiparazione di Lamberto Dini ad un rospo portata avanti in questi giorni da «il manifesto».
Da un’altra prospettiva, a questa tuttavia complementare, quella della storia delle idee, l’antispecismo non è che la “naturale” continuazione della decentralizzazione dell’uomo, iniziata da Copernico (la casa dell’uomo non è al centro dell’universo), proseguita da Darwin (l’uomo non è al centro della sua casa) e da Freud (l’uomo non è neppure al centro di se stesso). L’antispecismo declina tutti questi “non” in positivo: la casa, pur essendo molto periferica, è di tutti quelli che la abitano, dove abitare significa “essere-in-un-mondo” (non quindi “essere-nel-mondo” poiché, come ci ha insegnato lo zoologo Jakob von Uexküll, esistono molti mondi, quello dell’uomo, ma anche quello del lupo, della scimmia, della farfalla, dei pesci, ecc.) cioè pensare, provare emozioni, instaurare rapporti, ricordare il passato e pianificare il futuro.
Storicamente la questione animale è spesso stata declinata in termini di diritti, cioè con un approccio fortemente razionalistico e, in fondo, antropocentrico. Non è tempo di andare oltre i diritti?

Credo che stia emergendo anche nell’ambito della riflessione filosofica quello di cui discutevamo prima a livello esistenziale: l’acquisizione di una consapevolezza della questione animale passa attraverso una serie di considerazioni razionali e affettive. La nozione di “diritti animali”, come hai giustamente suggerito, va approfondita. Infatti, come già indicava Henry Salt più di un secolo fa se gli uomini sono titolari di diritti, beh... allora lo devono essere anche gli animali. Già il parlare di “diritti umani” e di “diritti animali” è una dimostrazione del nostro pensiero antropocentrico.
I “diritti”, inoltre, sono chiaramente una convenzione sociale, anche se estremamente utile, io credo, per proteggere i più deboli dal sopruso istituzionalizzato, ma che proprio per la loro “universalità” rendono i titolari degli stessi perennemente “sostituibili” in quanto tra loro identici. La sostituibilità, che è alla base dello sfruttamento animale e umano, costituisce una “barriera protettiva” davvero labile, oltre a rendere i diritti qualcosa di facilmente revocabile, come stiamo assistendo in questi ultimi anni a livello intraumano. Ecco allora che la domanda sul perché ad alcuni enti vengono accordati dei diritti necessita di essere riconsiderata. Penso che l’enfasi posta dai filosofi morali sulla capacità degli animali di provare piacere e dolore in realtà si fondi su qualcosa di più profondo. E questo qualcosa di più profondo è l’intenzionalità.
L’intenzionalità è quel meccanismo che lega il passato con il futuro: sulla base di esperienze positive e negative avute in passato e di cui mi ricordo, pianifico il futuro cercando di avvicinarmi alle fonti di piacere e di allontanarmi da quelle dolorose. Questo tipo di intenzionalità è chiaramente posseduta da (almeno) gran parte degli animali e questo lo sa chiunque abbia mai avuto a che fare con un animale da compagnia”.
C’è poi qualcosa di ancora più profondo che muove l’intenzionalità: la vulnerabilità dei corpi. In quanto possiedo un corpo mortale, sviluppo un’intenzionalità che mi aiuta a preservarlo. E credo che in pochi sarebbero disposti ad accettare che il corpo animale non sia vulnerabile e che la vulnerabilità sia sostituibile: tutti siamo vulnerabili ma ognuno lo è a suo modo. Allora, in aggiunta alle considerazioni morali classiche fortemente razionali, si affianca, nella rivalutazione dell’animale, la compassione, cioè a un tempo la capacità di empatizzare con le sofferenze dell’Altro e la capacità di condividere le passioni con l’Altro. Qualcosa di estremamente corporeo, qualcosa che la nostra tradizione ha in effetti svalutato come meramente animale.
Tu parli di universalità e in effetti i diritti valgono, quando ci sono, per tutti allo stesso modo. La diversa prospettiva a cui alludi, quella dell’intenzionalità e della vulnerabilità, ci porta nella direzione invece dell’identità e dell’unicità dell’animale, verso il riconoscimento di un altro.
Sì, credo proprio che questo sia un punto fondamentale che richieda un grande lavoro teorico. Lavoro teorico che è già cominciato sia nella riflessione continentale (Derrida e Despret) sia in quella anglosassone (Acampora e Calarco) e che, sono certo, darà frutti importanti di cui beneficerà non solo l’antispecismo ma anche la riflessione sui diritti umani, così spesso declamati, ma altrettanto spesso calpestati. Insomma, diritti da un lato e compassione dall’altro non vanno contrapposti ma coniugati.
Mettere insieme la cogenza universale dei diritti, che vanno lontani ma che ci lasciano sostituibili, con la nuance personale della compassione, che è giocoforza limitata nello spazio e nel tempo, ma che ci rende unici, sarebbe un enorme passo avanti per tutti, animali umani e non umani.

Grattacieli, cattedrali e mattatoi Il suggestivo titolo dell’ultimo libro di Tom Regan (insieme a Singer uno dei principali filosofi e attivisti animalisti) che hai tradotto in italiano è Gabbie vuote. Ecco, a parte le gabbie vuote, la fine dei macelli, degli allevamenti, dello sfruttamento animale in tutte le forme, come te l’immagini un mondo liberato? È ovviamente un mondo in cui anche gli uomini e le donne sono liberate dallo sfruttamento.
Non c’è dubbio che qualunque antispecista che non voglia cadere in contraddizione deve prevedere che il “mondo liberato” sia tale al di là della forzata dicotomia di cui abbiamo parlato. È altrettanto ovvio, credo, che tutto questo debba passare, per quanto detto, nel rifiuto di ogni mito della forza, che, per definizione, non si prende cura della vulnerabilità, ma la piega ai propri interessi. Per quanto poi riguarda una cartografia più precisa del “mondo liberato”, credo che al momento sia difficile proporre qualcosa di più di qualche metafora e di qualche caratterizzazione in negativo.
E quando il pensiero manca, si ricorre ai poeti. Montale, in Ossi di seppia, scriveva: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». E penso che questi versi riassumano bene la situazione del pensiero antispecista attuale. Quasi 100 anni fa, Horkheimer descriveva la nostra attuale società come un grattacielo, dove in cima stanno i «grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici» e alla base «poveri, vecchi, malati» e gli abitanti dei paesi cosiddetti “sottosviluppati” (i vari «dannati della terra», direbbe Fanon), e aggiunge: «Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali». E termina dicendo: «Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato».
Ecco, quello che gli antispecisti non vogliono sono grattacieli, cattedrali e mattatoi, immaginandosi così un’altra “urbanistica” del pensiero e della vita, un’eterotopia (direbbe Foucault), cioè un altro mondo, dove tutti possano vedere il cielo stellato. Un altro mondo che sia veramente alternativo alle utopie rassicuranti dell’altro mondo, utopie che sempre hanno richiesto la morte del corpo.